Onere della prova e colpa di organizzazione. Il Tribunale di Biella sulla nullità del decreto di citazione a giudizio dell’ente per la mancata indicazione delle carenze organizzative.

di  Luigi  També, Dottorando  di ricerca in  Diritto penale

1. Introduzione

Il Tribunale di Biella, con ordinanza pronunciata in data 16 ottobre 2024, ha dichiarato la nullità del decreto di citazione a giudizio ai sensi dell’art. 552, comma 1 lett. c) e comma 2 c.p.p. per indeterminatezza e genericità del capo di imputazione. Più nel dettaglio, a seguito dell’eccezione sollevata dalla difesa della persona giuridica, il giudice ha rilevato l’insussistenza nel capo d’imputazione di uno degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa dell’ente: la colpa di organizzazione. Come emerge dalla motivazione in analisi, infatti, il pubblico ministero, disattendendo al suo onere probatorio, non avrebbe indicato «quali sarebbero le carenze organizzative che dovrebbero fondare la responsabilità amministrativa» (p. 2) dell’ente imputato.

Il commento alla presente ordinanza fornisce l’occasione per tornare su un tema recentemente trattato dalla Suprema Corte con la c.d. sentenza Impregilo, e oggi affrontato anche dai Tribunali di merito. Dopo aver ripercorso brevemente i passaggi argomentativi della motivazione, i temi oggetto d’analisi saranno: la colpa di organizzazione, il suo onere probatorio e gli elementi costitutivi della responsabilità degli enti. Tali aspetti verranno esaminati in stretta correlazione con i requisiti processuali richiesti dall’art. 552 c.p.p. a pena di nullità, affinché il decreto di citazione a giudizio possa dirsi conforme al modello legale.

Infine, si offriranno alcune considerazioni conclusive in merito all’importanza della corretta allocazione dell’onere probatorio anche rispetto all’accertamento della responsabilità dell’ente. Si osserverà, come tale elemento risulti determinante non solo per conformare tale prova ai principi fondamentali rilevanti anche per la responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001, ma, soprattutto, per garantire una più ampia diffusione della cultura della compliance, che verrebbe ostacolata se non vi fosse pieno rispetto dei profili relativi all’accertamento probatorio.

2. Il percorso motivazionale dell’ordinanza del Tribunale di Biella

Nella prima parte della motivazione dell’ordinanza in esame, il giudice si sofferma su profili strettamente processuali, ovvero sulla determinatezza e completezza del capo d’imputazione contenuto nel decreto di citazione a giudizio. Richiamando i principi giurisprudenziali enunciati dalla Suprema Corte, il Tribunale rileva come il requisito delineato all’art. 552, comma 1 lett. c), c.p.p. relativo alla “enunciazione del fatto, in forma chiara e precisa”, entra in conflitto con il principio fondamentale del diritto di difesa ex art. 24 Cost. quando, con la ricostruzione accusatoria contenuta nel capo d’imputazione, «l’imputato non abbia potuto conoscere i tratti essenziali della fattispecie di reato». Affinché l’accusa possa definirsi chiara e precisa rispetto ai profili contestati, sarà necessario che il fatto venga descritto «nei suoi elementi strutturali e sostanziali» (p. 1). Inoltre, come correttamente rilevato, trovandosi nella fase dibattimentale, il giudice procedente non potrà sollecitare il P.M. ad integrare o precisare la contestazione, così come previsto dall’art. 421, comma 1, c.p.p., per l’udienza preliminare, e dall’art. 554 bis, comma 5, c.p.p., per l’udienza predibattimentale, in quanto solo in tali sedi l’accusa potrà essere perfezionata e trovare la propria stabilizzazione. Pertanto, fuori da queste ipotesi, il giudice – in caso di genericità o indeterminatezza del capo di imputazione – non potrà che dichiarare la nullità del decreto di citazione a giudizio, proprio come avvenuto nel caso ora in analisi.

Tali profili più strettamente processuali si intrecciano con quelli sostanziali, riguardanti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa degli enti. Secondo l’impostazione accusatoria, il capo d’imputazione relativo alla responsabilità dell’ente potrà definirsi completo già solo indicando il reato presupposto, il soggetto interno alla compagine organizzativa che lo ha commesso e l’interesse o vantaggio conseguito dall’ente. Per il Pubblico Ministero, quindi, la colpa di organizzazione non rientra tra gli elementi costitutivi della responsabilità dell’ente e non sarà nemmeno suo onere provarla o indicarla nel capo d’imputazione, gravando invece sulla difesa l’onere di «provare l’adozione e l’efficace attuazione del modello di organizzazione, prevedendo la norma una sorta di inversione dell’onere della prova» (p. 1).

Tale ricostruzione non viene però condivisa dal giudice del Tribunale di Biella, il quale –conformandosi all’orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità (tra quelle richiamate nell’ordinanza, Cass. pen., sez. IV, n. 18413 del 15/2/2022; Cass. pen., sez. IV, n. 570 del 4/10/2022) – dichiara come la colpa di organizzazione debba considerarsi elemento costitutivo della tipicità dell’illecito amministrativo dell’ente, dovendo dunque l’accusa provare «che non [siano] stati predisposti da parte dell’ente accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato» (p. 2).

Prosegue poi il Tribunale precisando che dall’omessa adozione del modello 231, o dalla sua inefficace attuazione, non deriverà ex se la colpa di organizzazione, trattandosi di semplici elementi di prova della colpa di organizzazione e non di elementi del fatto tipico. L’accusa, infatti, riportandosi agli elementi strutturali caratterizzanti il reato colposo, ovvero la causalità della colpa (nelle forme della concretizzazione del rischio e della condotta alternativa lecita), dovrà calare nel contesto aziendale tali riferimenti e valutare se effettivamente, a fronte di una regola organizzativa violata, sussista una colpa di organizzazione. Nel caso in analisi, però, tutto ciò non è stato fatto, in quanto l’accusa non solo non fa in alcun modo riferimento alla colpa di organizzazione, ma al contempo non individua le carenze organizzative rimproverabili all’ente ai fini dell’accertamento della sua responsabilità.

Sulla base di quanto argomentato, dunque, il Tribunale di Biella dichiara la nullità del decreto di citazione a giudizio, difettando nel capo d’imputazione l’enunciazione del fatto in forma chiara e precisa, all’interno del quale avrebbe dovuto ricomprendersi anche l’elemento della colpa di organizzazione.

3. La colpa di organizzazione nella giurisprudenza di legittimità

Fin dall’entrata in vigore del d.lgs. 231/2001, la colpa di organizzazione ha assunto un ruolo centrale nella struttura dell’illecito dell’ente. La stessa Relazione Ministeriale al decreto conteneva molteplici riferimenti a tale elemento, lasciando comunque aperti degli interrogativi rispetto alla sua natura e, soprattutto, all’onere probatorio. Il richiamo al modello dell’illecito colposo della persona giuridica appariva evidente, ma, nonostante ciò, per anni il dibattito si è concentrato sulla collocazione della colpa di organizzazione nella struttura dell’illecito amministrativo dell’ente. Questa, infatti, non veniva ricompresa tra i criteri d’imputazione della responsabilità ex d.lgs. 231/2001, giustificando quindi un’inversione dell’onere della prova a beneficio dell’accusa, ma a danno dell’ente, chiamato dunque a “dar prova” dell’assenza di un deficit organizzativo.

Tale impostazione, però, risulta ormai superata, seppur residuino ancora delle incertezze sul punto.  Come è facile osservare dall’ordinanza in commento, vi è ancora chi cerca di “sgravarsi” di tale “incombente onere probatorio”, nel tentativo di riconoscerlo in capo agli enti imputati nel procedimento penale, dimenticandosi che la scelta del legislatore di attribuire al giudice penale «la competenza a conoscere degli illeciti amministrativi dell’ente» (art. 36 d.lgs. 231/2001), dovrà inevitabilmente portare con sé tutte le relative – e imprescindibili – garanzie processuali.

Oltre a ciò, non potrà di certo ignorarsi il percorso giurisprudenziale in materia di colpa di organizzazione e onere della prova. Riprendendo proprio le parole utilizzate dalle Sezioni Unite nella sentenza Thyssen Krupp, nel d.lgs. 231/2001 non è ravvisabile alcuna inversione dell’onere della prova, in quanto graverà sempre in capo all’accusa l’onere di dimostrare, oltre alla realizzazione del reato-presupposto da parte di uno dei soggetti di cui all’art. 5 e il criterio d’imputazione oggettiva dell’interesse o vantaggio, la carente regolamentazione interna dell’ente, ovvero la c.d. “colpa di organizzazione”.

Tale principio è stato poi ripreso, e ulteriormente precisato, anche dalla giurisprudenza di legittimità successiva, prima con la pronuncia sul disastro ferroviario di Viareggio e poi con la più recente sentenza Impregilo. Proprio con quest’ultima, infatti, viene rimarcata la scelta del legislatore di non qualificare il rimprovero all’ente nelle forme di una responsabilità oggettiva, dovendosi riconoscere, anche per l’illecito amministrativo da reato dell’ente, una componente “soggettiva”. Richiamando la concezione normativa della colpa sviluppata in materia di responsabilità individuale, la colpa di organizzazione costituisce un elemento costitutivo della “tipicità colposa” della responsabilità dell’ente, per cui quest’ultimo sarà responsabile ai sensi del d.lgs. 231/2001 qualora non abbia adottato un’organizzazione adeguata alla prevenzione del reato presupposto che si è verificato, ovvero non si sia uniformato alle regole cautelari contenute nel modello. Tutto ciò, quindi, poiché costituisce il fondamento della responsabilità dell’ente, dovrà necessariamente essere provato dall’accusa.

Starà poi al giudice, secondo il meccanismo della c.d. prognosi-postuma, valutare l’idoneità del modello e, sempre sulla base del paradigma colposo, verificare, da una parte, che l’evento reato costituisca l’effettiva concretizzazione del rischio attivato dalla regola cautelare violata (e contestata dal P.M.) e, dall’altra, che la condotta alternativa lecita avrebbe evitato il verificarsi proprio di quell’evento reato. In altri termini, per dirsi provata la responsabilità dell’ente dovrà accertarsi non solo il nesso naturalistico tra la violazione della regola cautelare e il reato realizzato dalla persona fisica, ma anche il nesso normativo, ovvero che la regola cautelare violata fosse idonea a prevenire l’evento reato, il quale avrebbe potuto evitarsi in concreto proprio mediante l’adozione/osservanza della specifica regola organizzativa.

Questi sono dunque gli elementi necessari per dimostrare la sussistenza di una colpa di organizzazione, la quale – come sottolinea correttamente l’ordinanza in commento – dovrà essere provata dall’accusa nell’accertamento della responsabilità dell’ente. Di fatti, se così non fosse e si riconoscesse tale onere in capo all’ente, si prospetterebbe una “presunzione della colpa di organizzazione”, derivante dalla sola commissione del reato presupposto da parte della persona fisica, aprendo dunque a un’ipotesi di responsabilità oggettiva.

4. I risvolti processuali nell’accertamento della colpa di organizzazione

Una volta chiariti gli aspetti di natura sostanziali che attengono alla ricostruzione della colpa di organizzazione nei termini di elemento del “tipo colposo” dell’illecito dell’ente, si possono analizzare le ricadute sul piano processuale, rilevanti, come già anticipato, nel caso in esame. Dalla lettura dell’ordinanza, emerge come la difesa abbia tempestivamente sollevato l’eccezione di nullità per indeterminatezza e genericità del capo d’imputazione all’interno delle questioni preliminari ex art. 491 c.p.p. Come sopra evidenziato, in sede dibattimentale il giudice non potrà sollecitare il PM nell’esercizio dei propri poteri di integrazione e precisazione del capo d’imputazione, in quanto il loro esercizio sarà confinato – come previsto dalla recente riforma Cartabia – all’udienza preliminare o predibattimentale.

Superato tale aspetto, l’analisi processuale assume rilevanza proprio in funzione delle valutazioni sopra svolte circa la colpa di organizzazione. Le due tematiche infatti si intrecciano: riconoscendo la colpa di organizzazione quale elemento costitutivo della responsabilità amministrativa degli enti, tale elemento dovrà inevitabilmente trovare espressione all’interno del capo d’imputazione, e di questo l’accusa sarà tenuta a darne prova. Riprendendo proprio le parole dell’art. 552, comma 1, lett. c) c.p.p., il decreto di citazione a giudizio dovrà contenere, a pena di nullità, “l’enunciazione del fatto in forma chiara e precisa”. Starà dunque all’accusa indicare tutti quegli elementi necessari affinché l’imputazione presenti tali requisiti, così che l’imputato (in questo caso persona giuridica) possa comprenderla al meglio e dunque esercitare il proprio diritto di difesa. Ora, mancando nel caso di specie l’indicazione, e dunque la prova, della colpa di organizzazione, l’ente-imputato non avrà consapevolezza del rimprovero che gli viene mosso, non essendo nemmeno a conoscenza della regola cautelare che la Procura assume esser stata violata.

Secondo la giurisprudenza in argomento, e riportata nell’ordinanza in commento, il fatto dovrà essere specificato nei suoi elementi strutturali, ovvero attinenti alla ricostruzione del fatto storico, e sostanziali, cioè completi rispetto al dato normativo. Il Pubblico Ministero, dunque, non solo dovrà ricostruire in modo preciso i fatti contestati, ma dovrà altresì individuare gli elementi costitutivi della fattispecie di reato in cui ritiene i medesimi fatti sussumibili.

Tutto ciò manca nel caso di specie, in quanto l’argomentazione accusatoria è “viziata” già a monte, ovvero nel momento in cui non ritiene la colpa di organizzazione un elemento costitutivo della tipicità dell’illecito amministrativo dell’ente, qualificando – al più – la predisposizione ed efficace attuazione di un modello organizzativo adeguato come una causa di esclusione della colpevolezza (o di non punibilità in senso stretto, sulla base di una diversa ricostruzione dottrinale). Se così fosse, infatti, non starebbe all’accusa provarne l’esistenza, quanto alla difesa dell’ente provare, o meglio “allegare”, la sussistenza di una “prova liberatoria”.

Il giudice quindi, uniformandosi all’orientamento consolidato in giurisprudenza, con l’ordinanza in commento ha mostrato i risvolti processuali (nullità del capo d’imputazione) ai principi affermati ormai da tempo a livello sostanziale, riconoscendo dunque piena effettività alla colpa di organizzazione dell’ente.

5. L’inversione dell’onere della prova come limite alla diffusione della cultura della compliance

Il concetto secondo cui l’ente non risponda della responsabilità ex d.lgs. 231/2001 “se prova che” la sua organizzazione possieda quei requisiti indicati dall’art. 6 del decreto, ha più volte mostrato le sue criticità. Una tale formulazione, ha originariamente spinto l’interprete a ritenere questa “clausola liberatoria” una causa di esclusione della responsabilità, anziché un elemento strutturale del “fatto tipico colposo” dell’ente. Sebbene la lettera della norma abbia dato adito a dubbi, i recenti approdi giurisprudenziali sono risultati aderenti con il rispetto dei principi fondamentali in materia. Ciò viene confermato anche dal Tribunale con l’ordinanza in commento, il quale si uniforma ai principi ormai consolidati in giurisprudenza, superando – si spera in via definitiva – il paradigma dell’inversione dell’onere probatorio apparentemente attribuibile all’ente.

L’operazione giurisprudenziale di assegnare il ruolo corretto alla colpa di organizzazione, dal punto di vista della struttura dell’illecito amministrativo dell’ente, contribuisce quindi a evitare forme di responsabilità oggettiva, generando altresì fiducia nei confronti delle imprese. Come noto, a più di vent’anni dall’entrata in vigore del d.lgs. 231/2001, uno tra i limiti di tale normativa si ravvisa proprio nella scarsa diffusione della cultura della compliance, non tanto tra coloro che – nell’ottica di prevenire il realizzarsi dei reati d’impresa – sono chiamati ad applicare il decreto predisponendo i c.d. modelli 231, ma – più in particolare – all’interno dell’autorità giudiziaria, ovvero coloro i quali, una volta accertato i c.d. reato presupposto, sono chiamati prima a provare, e poi a valutare, l’adozione e l’efficace attuazione di tale modello, ovvero la colpa di organizzazione.

Tale “asimmetria culturale” tra gli operatori, infatti, ha generato una certa sfiducia nei confronti dei buoni propositi a cui mirava il d.lgs. 231/2001, con la diretta conseguenza per cui l’ente potrebbe decidere di non dotarsi di un modello o ricorrere a c.d. “modelli di carta”. Peraltro, tale sfiducia aumenterebbe laddove si chiedesse alla persona giuridica, che ha regolarmente adottato un modello 231, di essere essa stessa a dar prova della sua efficace attuazione, mostrando dunque al giudice un’adeguata organizzazione e l’assenza di una colpa di organizzazione. Se così fosse, l’aggravio nei confronti dell’ente sarebbe eccessivo e soprattutto contrastante con i principi cardine del processo penale, sede – per esplicita previsione normativa – in cui la responsabilità ex d.lgs. 231/2001 nei confronti della persona giuridica viene accertata.

Non solo, perché seguendo questa strada, la diretta conseguenza sarà l’assunzione da parte dell’ente di una “politica di compliance rinunciataria”, il quale difficilmente sarà disposto ad adottare un modello di cui sarà poi chiamato a dar prova della sua efficacia preventiva. Dati tali presupposti, si preferirà optare per una rinuncia a monte a un sistema di prevenzione reati, in quanto la sua adozione rischierebbe di “incastrare” l’ente in una potenziale probatio diabolica richiesta da un processo penale in cui, ancora troppo spesso, la magistratura ragiona secondo la “logica del senno del poi”.

Pertanto, oltre a richiamare anche in questa sede le invocate istanze di riforma relative all’art. 6 d.lgs. 231/2001, l’auspicio non potrà che essere quello di una maggior sensibilità sull’argomento, anche – e soprattutto – presso tutti quei Fori più piccoli, in cui si concentrano buona parte delle PMI, le quali costituiscono la stragrande maggioranza del tessuto imprenditoriale italiano. Dare consapevolezza alle piccole realtà imprenditoriali che, qualora si verificasse un reato all’interno dell’ente, non starà a loro provare l’assenza di una colpa di organizzazione, potrà dunque portare a notevoli benefici, non solo per la diffusione della cultura della compliance, ma soprattutto nei termini della prevenzione dei reati, raggiungendo quindi lo scopo originario del d.lgs. 231/2001.