Giurisprudenza interna

Proporzionalità del sequestro alla persona giuridica: la Cassazione precisa i limiti

15 Aprile 2025

 

1.Introduzione

Con la sentenza n. 2836 del 23 gennaio 2025 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’applicazione del principio di proporzione nell’ambito del sequestro preventivo.

La pronuncia in esame, emessa dalla VI sezione penale, ha annullato l’ordinanza con la quale il Tribunale di Messina aveva disposto il sequestro preventivo della società agricola semplice S., nonché dei conti correnti a essa intestati, dei beni aziendali, delle quote di partecipazione e di ogni altra componente patrimoniale ad essa riconducibile.

La decisione trova il proprio fondamento nell’assunto per il quale il principio di proporzionalità deve essere applicato anche con riferimento ai provvedimenti cautelari a carico degli enti nel procedimento ex d.lgs. 231/2001.

La sentenza offre dunque l’occasione per approfondire le implicazioni pratiche e teoriche del principio di proporzionalità nel contesto delle misure cautelari reali, anche con riferimento all’ambito della responsabilità da reato degli enti ai sensi del d.lgs. 231/2001.

 

2.I fatti alla base del procedimento

La vicenda trae origine dal sequestro preventivo impeditivo disposto dal Tribunale di Messina nei confronti della Società S. Il provvedimento, emesso in accoglimento dell’appello del Pubblico Ministero, riguardava non solo la società agricola semplice, ma anche i suoi conti correnti, i beni aziendali, le quote di partecipazione e ogni altra componente patrimoniale ad essa riconducibile.

Secondo la ricostruzione accusatoria, la Società S. sarebbe stata utilizzata come strumento per il reimpiego di titoli ‘tossici’ derivanti da plurimi reati di truffa. Il legale rappresentante della società ricorrente era stato inoltre destinatario della misura cautelare interdittiva del divieto di esercitare attività imprenditoriale in relazione al reato di riciclaggio ex art. 648 ter c.p., per aver «acquistato e utilizzato, nella qualità indicata» i suddetti titoli «ritenuti tossici in quanto ottenuti tramite truffe aggravate ai danni della stessa Agenzia».

Inizialmente la domanda di sequestro preventivo era stata rigettata sul presupposto che la società non fosse operativa. Tuttavia, a seguito della produzione di ulteriore documentazione da parte del Pubblico Ministero, il Tribunale aveva ritenuto che la società fosse ancora in essere e aveva disposto l’applicazione della misura cautelare.

La Società S. aveva quindi proposto ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Messina, articolando due motivi di impugnazione.

Il primo motivo contestava la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’ammissibilità dell’appello del Pubblico Ministero e alla sussistenza del fumus dell’illecito amministrativo ascritto all’ente ex d.lgs. n. 231/ 2001.

Più nel dettaglio, il difensore sosteneva, in primo luogo, che nell’atto di appello non fosse presente una specifica domanda cautelare relativa all’illecito amministrativo contestato alla società S. ai sensi dell’art. 25octies d.lgs. 231/2001 in relazione al reato presupposto per cui si procede (il reato di riciclaggio ex art. 648ter c.p.); al contrario, la domanda cautelare avanzata dal Pubblico Ministero sarebbe stata limitata, ai sensi del d.lgs. 231/2001, al solo delitto di truffa.

Sempre secondo la ricostruzione difensiva, il Tribunale avrebbe erroneamente rigettato l’eccezione di inammissibilità, interpretando la domanda del Pubblico Ministero come estesa anche al reato presupposto per cui si procedeva. L’appello, infatti, sarebbe stato proposto nei confronti della società e non con riguardo all’ascrizione provvisoria relativa al reato di riciclaggio (art. 648 ter c.p.) contestato al legale rappresentante.

 

In secondo luogo, sotto altro profilo, l’ordinanza sarebbe viziata per avere il Tribunale «omesso di motivare quanto alla sussistenza del fumus dell’illecito amministrativo ascritto all’ente», essendo stato il provvedimento ‘costruito’ solo con riguardo al reato presupposto contestato al legale rappresentante.

 

Il secondo motivo lamentava la violazione di legge con riferimento al periculum in mora e, soprattutto, al principio di proporzionalità, non essendo stato spiegato perché fosse necessario il vincolo su tutti i beni indicati.

 

 

3.La decisione della Corte di Cassazione: la centralità del principio di proporzionalità

La Suprema Corte ha accolto parzialmente il ricorso della società, ritenendo fondata esclusivamente la doglianza relativa alla violazione del principio di proporzionalità.

Come si evince dalla lettura della sentenza, i giudici di legittimità hanno in primo luogo dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso.

La Suprema Corte ha osservato che il Tribunale di Messina aveva adeguatamente spiegato come il sequestro preventivo in questione non avesse come presupposto l’illecito da reato dell’ente ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, bensì la strumentalità dell’impresa per la realizzazione del reato di riciclaggio contestato al legale rappresentante. Secondo l’impianto accusatorio descritto nell’ordinanza impugnata, l’impresa era un mero «schermo» finalizzato al ‘ricambio’ dei titoli illeciti attraverso l’acquisto o l’affitto di fondi per poi richiedere nuove sovvenzioni.

I giudici hanno evidenziato che la ricorrente si era limitata a riproporre le stesse questioni già adeguatamente valutate dal Tribunale; in tal senso la difesa non è stata in grado di apportare elementi che evidenziassero l’illegittimità dei presupposti giuridici alla base del sequestro preventivo.

Come anticipato, la Corte ha invece ritenuto fondato il secondo motivo di ricorso nella parte relativa alla violazione del principio di proporzionalità.

I giudici di legittimità hanno dichiarato inammissibile la censura relativa al periculum in mora, ritenendo che il Tribunale avesse motivato congruamente la persistente operatività della società e il concreto pericolo di reiterazione dell’attività criminosa attraverso l’uso dei titoli illeciti per ottenere ulteriori contributi. Inoltre, sul punto, il percorso motivazionale ha evidenziato la strutturale genericità del motivo di ricorso avanzato dalla società ricorrente, che si sarebbe limitata a negare, senza tuttavia addurre nulla di specifico, il collegamento tra le operazioni compiute nell’ultimo biennio e l’attività illecita.

Il fulcro della decisione risiede tuttavia nel riconoscimento della violazione del principio di proporzionalità. Sebbene abbia riconosciuto la sussistenza del pericolo di reiterazione del reato, la Cassazione ha criticato la mancata motivazione del Tribunale riguardo alla necessità di estendere il sequestro a tutti i beni della società, inclusi i conti correnti e le altre componenti patrimoniali.

Dopo aver richiamato l’art. 275 c.p.p., il diritto dell’Unione Europea (art. 5, par. 3 e 4, TUE, art. 49, par. 3, e art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali) e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 49), così come interpretata dalla Corte EDU, la Corte ha sottolineato come il canone di proporzionalità assolva sia a una «funzione strumentale per la tutela dei diritti individuali nel processo penale», sia a una «funzione finalistica come parametro per verificare la giustizia della decisione».

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, confermato anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Pen., S.U., 19 aprile 2018, sent. n. 36072), ogni misura cautelare deve trovare un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco. Il principio di proporzionalità, infatti, non opera solo quale limite alla discrezionalità giudiziale nella fase genetica della misura, ma impone al giudice di graduare e modellare il contenuto del vincolo durante tutta la sua efficacia, anche in relazione alle sopravvenienze che possono intervenire, evitando restrizioni più incisive dei diritti fondamentali rispetto a quanto strettamente necessario per tutelare le esigenze cautelari.

Con specifico riferimento al sequestro preventivo, il canone di proporzionalità impone al giudice di modulare il vincolo in modo che lo stesso, pur conforme agli scopi previsti dal legislatore, non determini un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica dell’ente attinto dal vincolo reale, eccedendo quanto strettamente indispensabile rispetto al fine perseguito.

Nel caso in esame la Corte ha ritenuto che il Tribunale di Messina non avesse fatto corretta applicazione dei suddetti principi. Pur riconoscendo la necessità di inibire l’attività d’impresa della società per impedire nuove occasioni di reato, i giudici hanno ritenuto non chiaro perché fosse necessario e proporzionato sequestrare anche i conti correnti e ogni altra componente patrimoniale della società, della quale, peraltro, non si avevano ulteriori informazioni. La legittima finalità di garantire l’effettività della decisione finale non deve eccedere quanto strettamente funzionale e deve essere realizzata in forme adeguate alla tutela di altri diritti costituzionali.

Sulla base di tali considerazioni la Suprema Corte ha quindi annullato l’ordinanza impugnata sul punto della violazione del principio di proporzionalità e ha rinviato la questione per un nuovo giudizio al Tribunale di Messina. Il giudice del rinvio dovrà effettuare un più accurato scrutinio circa la necessità di mantenere il sequestro su tutti i beni della Società S., motivando in modo più puntuale la proporzionalità della misura rispetto all’obiettivo di prevenire la commissione di ulteriori reati.

 

4.I riflessi sulla responsabilità da reato dell’ente

La sentenza in esame si inserisce quale importante precedente nel ribadire la centralità del principio di proporzionalità anche nell’ambito delle misure cautelari reali, evidenziando la necessità di un bilanciamento concreto tra le esigenze di prevenzione dei reati e la tutela dei diritti individuali e delle attività economiche.

La decisione della Corte di Cassazione pone così un ‘ulteriore mattoncino’ nella affermazione e nel consolidamento di quell’orientamento interpretativo che, proprio con l’obiettivo di porre dei limiti al sequestro preventivo, sottolinea l’importanza di una valutazione concreta e specifica della proporzionalità della misura cautelare, con particolare riferimento all’effettiva necessità di estendere il vincolo a tutti i beni dell’ente (tra le tante, Cass. Pen., sez. III, 7 maggio 2015, n. 18993). La sentenza ribadisce che la misura cautelare reale non deve tradursi in un eccessivo e ingiustificato sacrificio dei diritti fondamentali, come il diritto di proprietà e la libertà di iniziativa economica.

Guardando ai riflessi che la tematica genera sulla disciplina contenuta nel decreto n. 231 del 2001, è utile dar conto di alcune problematiche che costituiscono il presupposto giuridico del caso oggetto d’esame, oggetto di discussione a livello giurisprudenziale.

Innanzitutto è necessario premettere che la questione decisa dalla Corte Suprema concerne un sequestro preventivo disposto nei confronti del legale rappresentante della società. L’analisi ripropone pertanto l’annoso problema del rapporto tra il processo a carico della persona fisica e della persona giuridica, e, più nello specifico, del rapporto tra la misura cautelare disposta nei confronti del singolo e quella disposta nei confronti dell’ente.

La tematica – che qui può essere soltanto accennata  –  assume rilievo sia dal punto di vista dell’impatto delle misure cautelari su valori costituzionalmente rilevanti, come la libertà di iniziativa economica, il lavoro nell’impresa e il contrapposto interesse alla prevenzione del crimine societario, sia dal punto di vista del rapporto tra l’accertamento cautelare condotto a carico della persona fisica e quello rilevante ai fini delle misure interdittive contro l’ente, giacché il primo incide in senso limitativo sui margini di valutazione del giudice nel procedimento de societate.

Il secondo tema sollevato dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento riguarda l’applicabilità del sequestro c.d. impeditivo nei confronti degli enti ai sensi del d.lgs. 231 del 2001.

Prima di soffermarsi sulla soluzione ad oggi accolta dalla giurisprudenza, pare opportuno introdurre la questione e richiamare brevemente i riferimenti normativi che la fondano.

Fra le misure cautelari adottabili nei confronti di una persona giuridica sono ricomprese, oltre a significative e gravose misure interdittive (ex artt. 45 e 9 del d.lgs. 231/2001), anche misure cautelari patrimoniali, dirette a colpire il patrimonio dell’ente coinvolto nel processo, vincolandone la disponibilità. In particolare, accanto al sequestro conservativo (la cui finalità è di evitare la dispersione delle garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta dalla persona giuridica all’Erario dello Stato), è previsto anche il sequestro preventivo (ex art. 53 d.lgs. 231/2001).

 

Il citato art. 53 del decreto, tuttavia, prevede che oggetto del provvedimento cautelare in esame possano essere solo le cose di cui è consentita la confisca e cioè, secondo quanto dispone l’art. 19 dello stesso d.lgs. n. 231, il solo prezzo o profitto del reato ovvero, quando non sia possibile eseguire la confisca delle cose anzidette, somme di denaro, beni ed altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto anzidetti; in secondo luogo, la medesima disposizione prevede che si osservino, in quanto applicabili, le disposizioni di cui agli artt. 321, co. 3 e 3 bis, 3 ter, 322 bis e 323 c.p.p., senza far alcun riferimento all’art. 321, co. 1, c.p.p., il quale disciplina l’applicazione del c.d. sequestro preventivo nell’ambito del processo penale verso le persone fisiche. Il sequestro preventivo, come è noto, è la misura cautelare reale che viene adottata per prevenire la reiterazione dell’illecito o per evitare l’aggravarsi delle conseguenze dello stesso.

 

Attraverso la lettura e l’interpretazione delle sopracitate norme, la dottrina ha sempre ritenuto che il cd. sequestro impeditivo non potesse essere applicato nei confronti di una società. A sostegno di tale opinione, questo orientamento richiama, in primo luogo, la circostanza che l’art. 53 non preveda la possibilità che nel procedimento nei confronti di un ente collettivo possano essere sottoposte a sequestro cose pertinenti al reato la cui libera disponibilità possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati; a ciò deve essere aggiunto il mancato richiamo, da parte dello stesso art. 53, alla disposizione di cui al comma primo dell’art. 321 c.p.p. (che regolamenta il sequestro delle predette cose ‘pericolose’).

 

In definitiva, secondo tale orientamento, nell’impianto originario del d.lgs. 231 del 2001 non fu prevista la possibilità del sequestro impeditivo perché la funzione da questo assolta avrebbe determinato una incompatibilità con le sanzioni interdittive irrogabili nei confronti delle persone giuridiche, anch’esse aventi la stessa finalità. Infatti, nell’ambito del sistema processuale e sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, astrattamente non vi sarebbe bisogno di un ricorso alla misura cautelare ex art. 321, comma 1, c.p.p.  potendosi riscontrare, di fatto, una sovrapposizione tra sequestro preventivo puro (o c.d. impeditivo) e la più grave delle misure cautelari previste dalla legge in esame, l’interdizione dall’attività, posto che tra i beni che possono essere oggetto di sequestro preventivo v’è anche l’azienda. Attraverso il sequestro preventivo di quest’ultima si conseguirebbe il medesimo effetto di un’interdizione totale dell’attività dell’ente, peraltro senza limiti temporali.

 

Tuttavia, la Corte di Cassazione (Cass. Pen., 20 luglio 2018, n. 34293) ha negato l’incompatibilità tra il sequestro preventivo c.d. impeditivo e l’impianto del decreto 231, sancendo che il primo «ha una finalità che la misura interdittiva non ha: impedire l’utilizzo di singoli beni ed evitare, sottraendoli alla disponibilità dell’ente, che possano continuare – nonostante la misura interdittiva – quantomeno ad agevolare la commissione di altri reati con conseguente pericolo per la collettività». Pertanto, «oltre all’espressa e speciale ipotesi del sequestro preventivo del prezzo o del profitto del reato, prevista dall’art. 53 del d.lgs 8 giugno 2001, n. 231, nei confronti dell’ente è ammissibile anche il sequestro c.d. “impeditivo” di cui all’art. 321, comma 1, cod. proc. pen., spettando al pubblico ministero individuare, di volta in volta, quello più funzionale all’esigenza cautelare che intenda conseguire».

 

Alla luce di questo orientamento giurisprudenziale, dunque, le statuizioni rese nella sentenza in commento circa il necessario rispetto del canone di proporzionalità nella delimitazione dell’oggetto del sequestro preventivo cd. impedito relativo a un’impresa, ancorché espresse in un procedimento cautelare a carico del legale rappresentante della società, devono considerarsi estendibili anche nell’ambito di un procedimento ex d.lgs. n. 231/2001.

 

Anna Pampanin, Dottoranda di ricerca in Diritto penale presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore. Avvocato

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