1. Introduzione
Con la sentenza n. 42968 del 26 novembre 2024 la Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale, ha annullato – per la seconda volta – la decisione della Corte d’Appello di Bologna che non si era conformata ai principi di diritto enunciati nella sentenza n. 24908/2021.
La pronuncia in esame è di particolare interesse perché, analizzando i presupposti della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato ai sensi del d.lgs. 231/2001, offre l’occasione per soffermarsi su due profili di peculiare rilievo attinenti alla materia della sicurezza sul lavoro.
Più nel dettaglio, la Corte Suprema ha affermato, da un lato, che l’interesse dell’ente alla commissione del reato presupposto, o il vantaggio conseguito, vadano sempre accertati in modo specifico e non possano essere dedotti automaticamente dalla condanna di un dirigente dell’impresa. La valutazione deve pertanto essere effettuata in via autonoma.
Dall’altro lato, i giudici di legittimità hanno fornito una dettagliata descrizione dello schema logico–motivazionale che il giudice di merito deve seguire nell’accertamento della responsabilità omissiva colposa ascrivibile alla persona fisica autrice del reato presupposto (nel caso di specie, il datore di lavoro).
Con riferimento all’art. 111 del d.lgs. n. 81/2008, il ragionamento del giudice deve rispettare una specifica «progressione valutativa», per cui andrà per prima cosa individuato il sistema di protezione in concreto prescelto dal datore di lavoro, al fine di una valutazione della congruenza della scelta in relazione al caso concreto e di un apprezzamento circa l’idoneità delle attrezzature effettivamente approntate con riferimento al sistema di protezione prescelto; a ciò dovrà quindi seguire la valutazione della sussistenza del nesso causale tra la condotta antidoverosa eventualmente accertata e l’evento che ha coinvolto il lavoratore.
Prima di soffermarsi sulle questioni strettamente giuridiche affrontate dalla sentenza, si ritiene necessario richiamare, in via di breve sintesi, le vicende processuali che hanno fondato la decisione in esame.
2. La ‘tortuosa’ vicenda processuale
La vicenda processuale prende avvio da un infortunio mortale occorso a un lavoratore dipendente nel corso dell’esecuzione di alcuni lavori in quota. L’uomo, infatti, aveva tragicamente perso la vita in conseguenza delle lesioni riportate scivolando e cadendo da un’altezza di circa sei metri, mentre era intento a effettuare delle misurazioni propedeutiche al posizionamento di alcune travi all’interno di un cantiere; altezza che aveva raggiunto utilizzando una scala, per poi spostarsi lungo una passerella larga circa 60 cm, senza indossare dispositivi anticaduta personali.
Nel 2019 la Corte d’Appello di Bologna aveva confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Rimini con cui AA (quale datore di lavoro della società VV srl), BB (quale dirigente della società stessa) e CC (quale direttore tecnico di cantiere della società appaltatrice) erano stati condannati in relazione al delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme in tema di sicurezza del lavoro di DD, dipendente della VV srl (società subappaltatrice di lavori edili affidati in appalto alla società SS).
In particolare, come si evince dalla lettura della motivazione, AA e BB erano stati ritenuti responsabili per aver «omesso di predisporre il previsto sistema di protezione individuale idoneo a consentire l’ancoraggio durante il lavoro in quota (art. 3, co. 1, lett. a, d.lgs. n. 81/2008)», mentre – quanto al CC – «per avere omesso di verificare la presenza dei dispositivi ‘linea vita’, e non averne sollecitato l’adozione alla società subappaltatrice (art. 97, co. 1, d.lgs. 81/2008)». Inoltre, con la medesima pronuncia, la Corte territoriale aveva ritenuto la società VV srl responsabile ai sensi degli artt. 5, 6, 25-septies, co. 2, d.lgs. n. 231/2001, avendo gli imputati «omesso di adottare le misure previste dalla legge allo scopo di eseguire i lavori in modo più rapido e meno costoso, in assenza dell’adozione dei modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati quale quello verificatosi».
A seguito del ricorso presentato da AA e dalla società VV srl, tale pronuncia veniva annullata dalla Suprema Corte di Cassazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte bolognese per nuovo esame, da effettuarsi alla luce dei principi delineati dalla sentenza di annullamento.
In sede di rinvio, la Corte d’Appello, dopo aver dichiarato di non doversi procedere nei confronti di AA a causa della sua irreversibile incapacità accertata con apposito approfondimento peritale, aveva confermato la sussistenza della responsabilità amministrativa della VV srl, riducendo peraltro la sanzione pecuniaria.
Avverso tale seconda decisione la società VV srl ha (nuovamente) proposto ricorso per Cassazione, censurando il percorso motivazionale formulato dalla Corte territoriale, la quale, secondo l’impianto difensivo, avrebbe confermato la responsabilità della società utilizzando le medesime argomentazioni già cassate dalla Suprema Corte, senza conformarsi alle indicazioni dettate dalla sentenza rescindente e di conseguenza concludendo (erroneamente) per la colpevolezza dell’ente. Secondo la società condannata vi sarebbe stata dunque una macroscopica violazione dell’art. 627, co. 3, c.p.p., il quale sancisce che il giudice del rinvio si debba uniformare alla sentenza della Corte di Cassazione «per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa».
3. La decisione della Corte: i motivi
Come già anticipato in apertura, la sentenza in esame ha ritenuto di accogliere le doglianze prospettate dalla difesa e ha annullato la decisione della Corte felsinea.
I profili di criticità rilevati dalla Suprema Corte possono essere esaminati secondo il seguente schema.
a) Erronea applicazione dello schema logico-motivazionale nella ricostruzione della responsabilità omissiva delle persone fisiche
Già con la prima sentenza di annullamento (Cass.pen., sez. IV, sent. n. 24908 del 25/05/2021) la Corte di Cassazione aveva censurato l’errore interpretativo in cui erano incorsi i giudici del gravame nell’apprezzamento della condotta tenuta dagli imputati ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 111 d.lgs. 81/2008.
Più specificatamente, secondo il giudizio della Cassazione, i giudici di merito avrebbero ‘invertito’ il ragionamento giuridico da effettuare; invece di individuare in via preliminare quale fosse la misura di protezione scelta dal datore di lavoro nel caso concreto, per poi verificare se in tale scelta quest’ultimo si fosse attenuto ai criteri indicati dall’art. 111 del d.lgs. 81/2008, i giudici del primo e secondo grado si sarebbero concentrati esclusivamente sulla mancata predisposizione di dispositivi di sicurezza individuale. Seguendo tale schema, però, essi avrebbero finito per interpretare la norma nel senso opposto rispetto a quello desumibile dal tenore letterale: l’art. 111 del decreto, infatti, sancisce che, qualora il datore di lavoro sia chiamato a scegliere le attrezzature di lavoro più idonee a garantire e mantenere le sicurezza delle condizioni dei lavori temporanei in quota, debba attribuire «priorità alle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale», che costituiscono dunque una ‘scelta subordinata’ (art. 111, co. 1, lett. a) d.lgs. 81/2008).
Inoltre, sempre sulla scia di tale ragionamento, le sentenze di merito avrebbero omesso di verificare se, proprio in relazione al tipo di sistema di protezione prescelto e alle attrezzature adottate, il datore di lavoro avesse correttamente individuato e fornito gli strumenti idonei a minimizzare il rischio contro le cadute.
Di conseguenza, nel caso di specie, la presenza delle piattaforme elevatrici (strumento di protezione collettiva) avrebbe potuto e dovuto orientare il ragionamento dei giudici in senso differente.
Sulla base delle suddette considerazioni il primo intervento della Corte di Cassazione aveva riscontrato e censurato una ‘carenza’ nell’esame della condotta omissiva del datore di lavoro; i giudici avrebbero dovuto analizzare la violazione della regola cautelare ascrivibile al datore di lavoro secondo la specifica progressione valutativa sopra indicata: individuazione del sistema di protezione in concreto prescelto dal datore di lavoro; valutazione della congruenza della scelta in relazione al caso concreto; apprezzamento della idoneità delle attrezzature effettivamente approntate con riferimento al sistema di protezione prescelto. Solo all’esito di tale completo esame avrebbero dovuto procedere a valutare l’incidenza causale della violazione accertata sull’evento concretizzatosi.
Tuttavia in sede di rinvio la Corte d’Appello di Bologna, nonostante le chiare indicazioni allegate, non ha seguito il percorso tracciato dal Giudice di legittimità, limitandosi, da un lato, a dichiarare il non doversi procedere ai sensi dell’art. 72-bis c.p.p. nei confronti di AA, unico soggetto, assieme alla VV srl, ad aver impugnato la sentenza.
In secondo luogo i giudici bolognesi, senza approfondire ulteriormente la questione, hanno richiamato le conclusioni raggiunte dal primo giudizio di appello, ricordando che il delitto di omicidio colposo contestato agli imputati era stato accertato con la sentenza 4099/19 dalla stessa Corte d’Appello di Bologna (altra sezione), divenuta poi irrevocabile, la quale «ha confermato in ordine a tale delitto la responsabilità di BB e CC, rispettivamente in qualità di dirigente nonché direttore di cantiere della VV Srl e di direttore tecnico di cantiere della SS Spa». In tal modo, la suddetta sentenza «ha altresì accertato la sussistenza del nesso causale tra l‘azione doverosa che è stata omessa, ossia la mancata predisposizione di idonei dispositivi di sicurezza, e il mancato controllo sul loro corretto utilizzo».
Sulla base dei parametri forniti, la Corte bolognese avrebbe dovuto invece procedere a una nuova e autonomavalutazione in ordine alla individuazione della misura di protezione scelta nel caso concreto dal datore di lavoro, onde verificare il rispetto dei criteri indicati dalla norma contestata, alla corretta individuazione e fornitura – in relazione al sistema di protezione prescelto – degli strumenti idonei a minimizzare i rischi di caduta del lavoratore, nonché, infine, in ordine alla verifica del nesso causale tra le condotte antidoverose eventualmente accertate e il decesso del lavoratore.
Emerge dunque con chiarezza che il giudice del rinvio non si è attenuto ai criteri indicati dalla sentenza rescindente, incorrendo (nuovamente) in un’erronea interpretazione e applicazione dell’art. 111 del d.lgs. 81/2008.
Tale vizio logico, incidendo sull’elemento materiale del reato, ha peraltro investito anche il giudizio di responsabilità amministrativa da reato dell’ente, che la Corte territoriale ha ritenuto doversi fondare sull’accertata colpevolezza del BB, la quale costituirebbe «un primo titolo autonomo» per ravvisare la responsabilità della VV srl.
b) La responsabilità dell’ente
La sentenza impugnata, dopo aver dichiarato di non doversi procedere nei confronti di AA per la sopravvenuta incapacità di quest’ultimo, ha invece ritenuto di dover confermare la responsabilità della VV srl ai sensi degli artt. 25-septies, 5 e 6 del d.lgs. 231/2001, «essendo state omesse le misure di prevenzione previste dalla legge allo scopo di eseguire i lavori in modo più rapido e meno costoso da AA, BB e CC».
Per giungere a tale soluzione la Corte d’Appello ha ritenuto di poter valorizzare – quale «primo titolo autonomo» della responsabilità della società – il fatto che BB e CC fossero stati ritenuti responsabili del reato di omicidio colposo loro ascritto con una sentenza divenuta ormai irrevocabile.
Prendendo le mosse da tale assunto la sentenza impugnata si è poi soffermata sulla posizione del BB, calandola nella prospettiva degli artt. 5 e 6 del d.lgs. 231/2001.
Da un lato ha sottolineato che la sua posizione dirigenziale, con un proprio livello di gestione e responsabilità, consentiva di ritenere sussistente il rapporto di immedesimazione organica richiesto dall’art. 5 del decreto; dall’altro lato, la Corte territoriale ha richiamato la posizione del BB anche con riferimento al criterio soggettivo di ascrizione della responsabilità dell’ente ex art. 6, valorizzando il fatto che egli, «persona fisica autrice del reato presupposto», rivestiva un ruolo di «soggetto apicale all’interno della VV srl». L’interesse e il vantaggio della società venivano dunque dedotti, automaticamente, dalla stessa posizione rivestita dal BB, che, in quanto soggetto apicale, aveva tutto l’interesse nel non adottare le misure previste dalla legge allo scopo di eseguire i lavori in modo meno oneroso.
Seguendo tale filo logico, però, il giudice ha fondato il giudizio di colpevolezza in capo all’ente su un presupposto fallace, derivante dall’erronea esegesi delle disposizioni contenute nell’art. 111 del d.lgs. 81/2008 (per le ragioni sopra elencate, v. par. 3 lett. a)). La Corte bolognese ha conferito una primaria rilevanza alle conclusioni raggiunte dalla precedente decisione di appello nei confronti del BB e del CC – che peraltro erano già state duramente censurate dalla sentenza rescindente –, così finendo per inficiare anche la struttura logica dell’ascrizione di responsabilità in capo all’ente.
In altri termini, la Corte bolognese si è completamente discostata dalle «scansioni interpretative» fissate dalla Quarta Sezione con riferimento all’interpretazione dell’art. 111 del d.lgs. 81/2008 – indicazioni peraltro pienamente vincolanti, al quale il giudice del rinvio è tenuto ad attenersi in ogni caso ai sensi dell’art. 627 c.p.p. –, rendendo di conseguenza irrimediabilmente vulnerate anche le ulteriori considerazioni inerenti alla responsabilità della VV srl.
In conclusione, la Corte di Cassazione ha ritenuto di dover annullare con rinvio ad altra Sezione la sentenza impugnata, in quanto è stata pienamente accertata la fondatezza dei rilievi difensivi volti a prospettare la violazione dell’art. 627 c.p.p.
c) La necessaria integrazione del contraddittorio
Dopo aver analizzato le questioni ‘sostanziali’ che hanno interessato il giudizio di annullamento, è opportuno effettuare una puntualizzazione di carattere processuale.
A seguito del ricorso presentato esclusivamente dal AA e dalla VV srl, il giudizio di rinvio era stato instaurato nei soli loro confronti, senza la citazione del BB e del CC, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 627, co. 5, c.p.p.
La sentenza in esame, tuttavia, ha sottolineato che «il motivo che aveva determinato l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata da AA e VV srl», costituito dall’erronea applicazione dell’art. 111 del d.lgs. 81/2008, «in nessun modo può essere considerato ‘‘esclusivamente personale’’, ai sensi e per gli effetti dell’art. 587 c.p.p.». Inoltre era stata la stessa sentenza rescindente, come già specificato, a evidenziare sia la diretta incidenza del vizio riscontrato sull’accertamento del reato ascritto agli imputati, sia il condizionamento sull’affermazione della responsabilità dell’ente, e sia, infine, la conseguente necessità di annullare la sentenza d’appello nei confronti di quest’ultimo.
Per tali ragioni risulta evidente che, prima ancora di procedere alla nuova valutazione delle risultanze probatorie acquisite, il giudice del rinvio avrebbe dovuto integrare il contraddittorio citando il BB e il CC – che non avevano proposto ricorso per Cassazione –, secondo quanto disposto dal comma 5 dell’art. 627 cod. proc. pen., ai sensi del quale l’annullamento pronunciato rispetto al ricorrente giova anche al non ricorrente, salvo che il motivo di annullamento sia esclusivamente personale: sicché «l’imputato che può giovarsi di tale effetto estensivo deve essere citato e ha facoltà di intervenire nel giudizio di rinvio».
4. Alcune considerazioni conclusive: l’interesse e il vantaggio dell’ente
Effettuate tutte le osservazioni che precedono si ritiene di poter svolgere alcune brevi considerazioni conclusive.
In particolare, come si è evidenziato nelle prime battute, la sentenza può essere apprezzata sotto due profili distinti.
Ci si è già soffermati a lungo sui criteri che la Corte di Cassazione ha indicato per la valutazione della condotta omissiva del datore di lavoro in episodi simili a quello oggetto della presente analisi. In un momento storico in cui il tema della sicurezza sul lavoro è al centro di numerosi dibattiti, sempre più spesso incentrati sull’adeguatezza dei dispositivi di protezione forniti ai lavoratori, le ‘linee guida’ delineate dalla pronuncia in esame possono rivestire un ruolo determinante.
Ciò su cui preme ancora riflettere concerne, invece, i presupposti della responsabilità amministrativa da reato degli enti e, più nello specifico, il criterio dell’interesse o vantaggio.
Ancora una volta lo sfondo è rappresentato dai reati colposi di evento. Come è noto, storicamente questa categoria di reati ha presentato alcuni ‘problemi di compatibilità’ con l’interpretazione originaria dell’art. 5 del d.lgs. 231/2001, che declina il criterio di imputazione oggettiva secondo una formula normativa ‘ambivalente’: la norma, infatti, evoca concetti giuridicamente distinti, potendosi distinguere un interesse «a monte» ad un indebito arricchimento (prefigurato e magari non realizzatosi) in relazione ad un illecito, da un vantaggio oggettivamente conseguito «a valle» con la commissione del reato, anche se non prospettato in precedenza (Cass. Pen., sent. n. 15543/2021). Concetti, questi, incompatibili con i reati colposi di evento, dove l’evento lesivo non corrisponde certo ad un interesse o vantaggio dell’ente, a tal punto che la giurisprudenza di legittimità (sin dalla sentenza ThyssenKrupp, Cass.pen., S. U., sent. n. 38343/2014) ha avallato una lettura alternativa dell’articolo 5, spostando il baricentro della valutazione dall’evento alla condotta. Nei reati colposi, pertanto, è la condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare a essere potenzialmente foriera di interesse o vantaggio per l’ente, quest’ultimo sicuramente ravvisabile, ad esempio, nel risparmio di costi o di tempo che l’ente avrebbe dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica la cui violazione abbia determinato un infortunio sul lavoro.
Su tali ‘scontate’ premesse si inserisce un’importante riflessione. Con la sentenza in esame la Cassazione ha censurato la decisione dei giudici di appello nella parte in cui essa aveva considerato titolo autonomo di responsabilità per l’ente la condanna definitiva dei dirigenti dell’impresa, e in particolare per aver dedotto l’esistenza di un risparmio di costi in termini prevenzionistici dalla natura della condotta che era stata contestata agli imputati: e cioè dalla violazione dell’obbligo per il datore di lavoro, nei lavori in quota, di privilegiare misure di protezione collettiva a quelle individuali (art. 111, co. 1, lettera a), del d.lgs 81/2008), dando per scontata la maggiore onerosità delle prime rispetto alle seconde. La Cassazione ha ribadito che la commissione di un reato da parte della persona fisica è solo il presupposto della responsabilità prevista dal d.lgs 231/2001, e non certo l’intera sua concretizzazione, per l’accertamento della quale è necessaria una valutazione autonoma.