Straining e stress lavoro-correlato: tra tutela risarcitoria del lavoratore e obblighi del datore di lavoro

di   Saul   A.   Clerici,  Avvocato.

 

 

 

La sentenza della Corte di Cassazione, sez. lavoro, ud. 8 maggio 2024, dep. 7 giugno 2024, n. 15957 si inserisce nel consolidato filone giurisprudenziale in materia di risarcimento del danno ex art. 2087 c.c. in favore del dipendente per la violazione del diritto ad un ambiente di lavoro privo di fattori stressogeni.

I giudici valorizzano il carattere onnicomprensivo dell’art. 2087 c.c., qualificando l’ “ambiente di lavoro stressogeno” come fatto ingiusto suscettibile di dar luogo ad una responsabilità contrattuale del datore.

La pronuncia offre lo spunto per una riflessione sui diritti del lavoratore e sui corrispettivi obblighi del datore, potendosi evidenziare la rilevanza del tema anche con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti ex D. Lgs. 231/2001 e per l’importanza che le condotte stressogene e vessatorie rivestono nella redazione dei modelli organizzativi.

 

1. La vicenda giudiziaria

La sentenza trae origine dal ricorso presentato da una lavoratrice, dipendente del Ministero dell’istruzione, soccombente nel giudizio dinanzi alla Corte d’Appello di Bologna che aveva rigettato il gravame volto ad ottenere il risarcimento del danno per le vessazioni datoriali subite ad opera di colleghi e superiori. I giudici di merito, pur rilevando come la dipendente avesse ottenuto – illo tempore – l’annullamento di un provvedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale emesso dalla dirigente scolastica, osservavano che l’esito del giudizio era dipeso unicamente dal mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del Ministero, così come una prima sanzione disciplinare era stata annullata per motivi meramente procedurali.

Piuttosto, le sentenze evidenziavano come le difficoltà relazionali emerse fossero imputabili alla stessa lavoratrice, la quale peraltro era stata attinta da due ulteriori sanzioni disciplinari poi confermate.

In altri termini, generiche sarebbero state le allegazioni di parte ricorrente ed assente la prova di comportamenti ostili a carattere discriminatorio e persecutorio che avrebbero giustificato il risarcimento del danno, essendo emersi, anzi, elementi di segno contrario addebitabili alla responsabilità della lavoratrice.

 

 

 

2. Il contesto di riferimento e le categorie extragiuridiche

L’art. 2087 c.c. prevede che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Da tempo immemore la Cassazione qualifica la previsione in questione “norma di chiusura […] ha una funzione di adeguamento permanente del sistema alla sottostante realtà socio-economica”, come già segnalava la sezione lavoro con sentenza del 6 settembre 1988 n. 5048 (alla quale ha fatto eco la giurisprudenza successiva e più recente, tra cui, salda nel ribadire l’orientamento “tradizionale” si v. Corte di Cassazione, Sez. lav., sent. 18 giugno 2018, n. 16026).

D’altronde, se nel 1988 i giudici di legittimità avevano dinanzi una molteplicità di “rischi generici rispetto a quelli specificamente previsti dal sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro” che richiedevano l’attivazione della tutela codicistica, la tendenza si è decisamente invertita non solo con il proliferare della normativa speciale (e, chiaramente, con l’avvento del T.U. in materia di sicurezza sul lavoro – D.Lgs. 81/2008 – di cui si dirà oltre), ma altresì a fronte dell’ingresso, nell’ordinamento e nell’evoluzione giurisprudenziale, di nozioni extragiuridiche tra le quali spicca senz’altro quella di “mobbing”.

Nel commendevole tentativo di dare veste e nome a situazioni giuridicamente rilevanti meritevoli di tutela, si è così assistito a un’esplosione di classificazioni “di tipo medico-legale, che non ha[nno] autonoma rilevanza ai fini giuridici e che serv[ono] soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute” (così, ex multis, Cass. 19 febbraio 2016 n. 3291). L’esigenza tipizzante ha tuttavia, in talune occasioni, condotto a conclusioni opposte rispetto all’iniziale intento di offrire tutela a tutte le violazioni “innominate” dell’integrità fisica e morale del lavoratore: il fenomeno del c.d. “panmobbismo” ha spinto numerose sentenze (soprattutto dei giudici di merito) a negare il risarcimento del danno ai lavoratori solo perché si è ritenuta non riscontrata la condotta costituente mobbing. Da qui lo sforzo della giurisprudenza di legittimità di ricondurre sempre più situazioni classificate con varie “etichette” (straining, bossing, stalking lavorativo, burn out) all’alveo di tutela dell’art. 2087 c.c. In particolare, per quanto di interesse, lo straining viene giudizialmente riconosciuto per la prima volta dal Tribunale di Bergamo con la sentenza 286 del 20 giugno 2005 come “situazione di stress forzato sul posto di lavoro in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente di lavoro, azione che oltre ad essere in sé stressante”; presenta “una durata costante” e tale da porre chi la subisce “rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità”. Manca, invece, sul piano oggettivo, la necessaria molteplicità delle condotte e, sul piano soggettivo, l’intento vessatorio unitario caratteristico del mobbing. Pare dunque che le due figure si differenzino solo in quanto la prima costituirebbe un quid minus rispetto alla più blasonata sorella maggiore. Invero, lo straining è stato utile grimaldello per forzare le rigidità delle classificazioni medico-legali e ha consentito di allargare le maglie del giudizio sulla illiceità delle condotte datoriali, ricomprendendovi anche comportamenti limitati nel numero e distanti nel tempo, pervenendo, da ultimo, a ritenere sussistente la responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro che consenta “anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress” (Cfr. Cass., ord. 18 ottobre 2023, n. 28923). Infatti, solo negli ultimi anni la Corte di Cassazione ha espresso chiaramente come – “al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing o straining” – anche una singola condotta può ben costituire fatto illecito risarcibile ex art. 2087 c.c. quando abbia intensità tale da costituire violazione di un interesse costituzionalmente protetto del lavoratore (chiarissima la pronuncia di Cass. 19 ottobre 2023 n. 29101).

Peraltro, il più ampio fenomeno dello “stress lavoro-correlato” ha trovato esplicito riconoscimento legislativo con l’art. 28 del D. Lgs. 81/08, che lo ha ricompreso tra i “rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori […] secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004”, imponendo al datore una valutazione dei rischi e relativa adozione del documento che tenga conto, in modo specifico, di tale categoria di stress dell’organizzazione. Sicché, ove i fattori stressogeni abbiano causato un danno al lavoratore, questi potrà chiedere il risarcimento ex art. 2087 c.c. a prescindere dalla classificabilità o meno delle condotte lavorative all’interno di una delle predette nozioni medico-legali.

Un ambiente lavorativo fonte di stress per il lavoratore è fatto ingiusto che non richiede la verifica dell’intento vessatorio del datore, purché abbia “serietà e consistenza” tale da ledere l’integrità psico-fisica del dipendente intesa quale diritto fondamentale della persona. L’art. 2087 c.c. diventa così (o torna ad essere) norma di chiusura, filtro, sul piano della normativa primaria, di tutte quelle situazioni meritevoli di tutela anche alla luce della normativa internazionale e del diritto costituzionale alla salute.

 

 

 

3. La decisione della Corte

La Corte di legittimità ha ritenuto fondato il ricorso della dipendente, cogliendo l’occasione per ribadire la necessità di superare gli angusti limiti (auto)imposti dalle classificazioni di mobbing e straining. I giudici ritengono infatti che tali nozioni abbiano valenza meramente descrittiva di quei comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. In particolare, come anticipato, il mobbing si configura a fronte di un elemento oggettivo, integrato da “una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro” e di un elemento soggettivo, cioè “l’intendimento persecutorio nei confronti della vittima […] a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento” in quanto la volontà persecutoria esercita una vis actractiva nei confronti di tutte le condotte datoriali, anche quelle che, isolatamente considerate, non integrerebbero ex se  il contrasto con la normativa e “colora in senso illecito anche condotte astrattamente legittime”. Per contro, lo straining si configura “quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie”.

Lo sforzo didascalico, tuttavia, non deve condurre all’erronea convinzione che solo le condotte rientranti nell’ambito delle suddette nozioni medico-legali possano costituire fatto illecito fonte di risarcimento. Anzi, il solo ambiente di lavoro stressogeno è in sé configurabile come “fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorchè apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.”. Più nello specifico, tale estensione di tutela è frutto dell’operazione di bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (artt. 4 e 32 Cost.) saldati tra loro, rispetto alla libertà di iniziativa economica del datore di lavoro (privato, ricondotta all’art. 41 Cost.), nonché, nel caso di datore “pubblico”, alle esigenze organizzative e i limiti di spesa. A ciò si aggiunga che la salute del lavoratore non può essere intesa come mera “assenza di malattia”, ma quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” come già definita nel preambolo della Costituzione della World Health Organization entrata in vigore il 7 aprile 1948, a cui fanno riferimento tutte le Convenzioni internazionali e la stessa normativa interna (art. 2 co. 1, lett. o) D. Lgs. 81/08).

Nel caso di specie, i giudici di merito, pur rilevando la presenza di “campanelli d’allarme” (il provvedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale emesso dalla dirigente scolastica poi annullato; la sanzione disciplinare annullata), non hanno fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali in materia. In altri termini, i comportamenti valutati dalle sentenze di merito, pur se astrattamente leciti ed episodici, tra loro distanti nel tempo, avrebbero dovuto comunque essere riletti alla luce di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie e, comunque, parte di una più ampia condizione lavorativa stressogena.

 

 

 

4. La rilevanza dell’approdo giurisprudenziale nell’organizzazione del lavoro.

La recente tendenza ad includere nelle condotte suscettibili di condurre al risarcimento del danno in favore del lavoratore tutte le condizioni lavorative stressogene, a prescindere dalla rispettiva qualificazione in termini medico-legali e, soprattutto, a prescindere dalla possibilità di ritenere integrata la fattispecie di mobbing, offre uno spunto operativo di rilievo per le organizzazioni aziendali.

Infatti, il fenomeno in questione non può essere ascritto solo all’ambito civilistico del risarcimento ex art. 2087 c.c. o, al contrario, sotto la luce del diritto penale nel caso in cui le condotte datoriali integrino (altresì) reato. Piuttosto, un approccio multidisciplinare ed integrato evidenzia la rilevanza del tema anche in ambito organizzativo, in particolare con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti ex D. Lgs. 231/2001. Il primo e più evidente incombente che grava (in via esclusiva ex art. 17 D. Lgs. 81/08) sul datore è certamente quello della valutazione dei rischi e redazione del relativo documento, ivi includendovi anche la valutazione dello “stress lavoro-correlato”, annoverato tra gli elementi oggetto di valutazione solo con il D. Lgs. 106/2009.

Tuttavia, non di minore rilievo, per le realtà che adottino un Modello Organizzativo di Gestione e Controllo ex D. Lgs. 231/2001, l’incidenza delle condotte stressogene e vessatorie sulla responsabilità amministrativa dell’ente. Infatti, non di rado accade che condotte di mobbing o straining trovino un “corrispettivo” in ambito penale nel c.d. “stalking occupazionale o lavorativo” o nel delitto di cui all’art. 572 c.p., pure con le dovute differenze. È inoltre evidente che una condotta del datore all’origine di un infortunio sul lavoro o di malattia professionale riconducibile anche allo stress lavoro-correlato (e mancata adozione di tutte le cautele e le misure idonee a prevenire ed evitare l’evento) potrà determinare, per il singolo, la formulazione di un addebito ex artt. 589 e 590 c.p., mentre in capo all’ente potrà ascriversi una responsabilità amministrativa per l’illecito di cui all’art. 25-septies D. Lgs. 231/2001.

Per contro, proprio perché l’art. 2087 c.c. è norma “aperta”, è ormai prassi che il giudice civile, nel valutare la richiesta risarcitoria, effettui un controllo sulla mancata o inefficace attuazione dei MOGC. In tal senso, infatti, l’adozione di un modello idoneo e adeguato a prevenire forme di aggressione fisica e psicologica, nonché gli altri fenomeni di stress lavoro-correlato, potrà essere un valido indice per ritenere che il datore abbia adottato, tra le altre, tutte le “misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, evitando così di incorrere anche in responsabilità risarcitoria.

 

 

 

5. Alcune considerazioni finali.

La sentenza analizzata si pone nel solco sempre più marcato di una giurisprudenza di legittimità molto attenta a rifuggire eccessi dogmatici e classificatori che possano lasciare aperti dei vuoti di tutela dei lavoratori. La Cassazione è ormai consolidata nel senso di ritenere che ogni fenomeno stressogeno, in quanto lesivo del diritto di rilevanza costituzionale alla salute e all’integrità psicofisica del lavoratore, possa dare luogo – quantomeno – a una responsabilità ex art. 2087 c.c. con le viste conseguenze in termini risarcitori.

Dunque, al datore e alle organizzazioni aziendali si impone una crescente attenzione non solo alla prevenzione di condotte costituenti reato sul luogo di lavoro, ma altresì alla predisposizione di un ambiente idoneo a promuovere (o almeno garantire) il benessere fisico, mentale e sociale del lavoratore. Coerente e auspicabile, in tal senso, risulta l’adozione di specifici modelli organizzativi che identifichino e tutelino i soggetti coinvolti dall’esposizione a fattori stressogeni.