La riforma del diritto penale tributario e gli effetti sulla responsabilità 231

di Mario Iannuzziello,  Assegnista di ricerca in Diritto penale

 

 

 

 

1. Premessa

 

Il decreto legislativo n. 87/2024, attuando la legge delega n. 111/2023, ha riformato il diritto penale tributario, intervenendo sul decreto legislativo n. 74/2000. Sebbene la novella del 2024 verta quasi esclusivamente sul reato commesso dalla persona fisica, la stessa spiega degli effetti – più riflessi che diretti – anche sull’illecito amministrativo a questo correlato nell’ambito della responsabilità da reato della persona giuridica. La riforma, infatti, pare assegnare al Decreto 231 il ruolo del convitato di pietra: lo menziona solo in alcuni articoli del riformato d.lgs. n. 74/2000, ma gli effetti riflessi che essa produce nel sistema 231 sembrano di più ampio raggio.

 

Prima di esaminare tali effetti, occorre tracciare una breve panoramica della riforma del diritto penale tributario (infra § 2) e richiamare i tratti dell’illecito corporativo dipendente dalla violazione del d.lgs. n. 74/2000 (infra § 3). Questo consentirà di rilevare che gli impatti della novazione del 2024 sul sistema 231 vanno al di là di quanto contenuto nel d.lgs. n. 87/2024 (infra § 4) e che permangono alcune aporie di sistema tra la responsabilità dell’apicale e la responsabilità dell’ente per i reati tributari (infra § 5).

 

 

2. La riforma del diritto penale tributario

 

Il d.lgs. n. 87/2024 – benché sia intitolato Revisione del sistema sanzionatorio tributario – ha un ambito di intervento ben più ampio, afferente sia al diritto tributario generale (ex multis, d.lgs. n. 471 e n. 472 del 1997) sia ad alcuni istituti e fattispecie del diritto penale tributario.

 

Sotto quest’ultimo profilo, il d.lgs. n. 87/2024 innova le fattispecie di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis, d.lgs. n. 74/2000) e di omesso versamento di IVA (art. 10-ter, d.lgs. n. 74/2000), inserendo in ambedue i precetti il termine dell’adempimento tributario – 31 dicembre – e una condizione obiettiva di punibilità secondo cui il fatto è punibile “se il debito tributario non è in corso di estinzione mediante rateazione” ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 462/1997. Inoltre, entrambe le fattispecie prevedono un ulteriore delitto, costruito su una ulteriore condizione obiettiva di punibilità e su un valore soglia. Questa singolare incriminazione, infatti, prevede che “In caso di decadenza dal beneficio della rateazione ai sensi dell’articolo 15-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, il colpevole è punito se l’ammontare del debito residuo è superiore” a 50.000,00 euro nel caso di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis, d.lgs. n. 74/2000) ed a 75.000,00 euro nel caso di omesso versamento di IVA (art. 10-ter, d.lgs. n. 74/2000).

 

La novella del 2024, poi, introduce una causa di non punibilità per il delitto di indebita compensazione (art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000) a tenore della quale “La punibilità dell’agente per il reato di cui al comma 1 è esclusa quando, anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito” (comma 2-bis). Tale causa di non punibilità pare rappresentare una specificazione dell’errore su legge extrapenale (art. 47, ult. co., c.p.) nel diritto penale tributario: gli “elementi specifici” e le “particolari qualità” che danno vita al credito da compensare sono disciplinate dalle leggi tributarie, le quali – sul punto – prevedono i criteri tecnici con cui calcolare tali importi.

 

La riforma interviene anche sul sequestro e sulla confisca, diretta e per equivalente, dei beni costituenti profitto o prezzo del reato, introducendo una clausola di salvaguardia e una limitazione all’ablazione patrimoniale. L’art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 prevede al neo introdotto comma 2 che “salvo che sussista il concreto pericolo di dispersione patrimoniale”, desunto da una serie di parametri relativi alle condizioni reddituali del reo ed alla gravità del reato tributario, “il sequestro dei beni finalizzati alla confisca […] non è disposto se il debito tributario è in corso di estinzione mediante rateizzazione […] sempre che […] il contribuente risulti in regola con i relativi pagamenti”.

 

Ancora, il d.lgs. n. 87/2024 estende le cause di non punibilità disciplinate all’art. 13 del d.lgs. n. 74/2000 mediante l’introduzione di due nuovi commi.

 

Il comma 3-bis dispone che i reati di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso versamento di IVA non sono punibili “se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto” e fornisce al giudice un parametro con cui valutare tale impossibilità sopravvenuta. Il giudice, infatti, deve accertare che la “crisi non transitoria di liquidità dell’autore” tale da cagionare gli omessi versamenti per mancanza di cassa deve essere dovuta “alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi” oppure “al mancato pagamento dei crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche”, subordinate entrambe alla “non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi”. Sembra, quindi, che il legislatore abbia voluto tipizzare quella specifica ipotesi di forza maggiore ex art. 45 c.p., a cui la giurisprudenza di legittimità ha ricondotto alcune ipotesi di omesso versamento divenute ineseguibili successivamente alla dichiarazione di imposta per causa non imputabile al debitore. In tema, la sentenza n. 37234 del 2024 della III Sezione della Suprema Corte, di recente, ha dichiarato che “l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito erariale, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto”. Conformi, fra le altre, Cassazione Penale, Sezione III, sent. nn. 23796/2019, 20266/2014, 8352/2014.

 

Il comma 3-ter dell’art. 13, poi, inserisce nel corpo del d.lgs. n. 74/2000 dei criteri con cui il giudice deve valutare la non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., istituto che sembra occupare uno spazio residuale rispetto alle altre cause di non punibilità previste dall’art. 13. Tale nuovo comma prevede che “Ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis del codice penale, il giudice valuta, in modo prevalente, uno o più dei seguenti indici:

a) l’entità dello scostamento dell’imposta evasa rispetto al valore soglia stabilito ai fini della punibilità;

b) salvo quanto previsto al comma 1, l’avvenuto adempimento integrale dell’obbligo di pagamento secondo il piano di rateizzazione concordato con l’amministrazione finanziaria;

c) l’entità del debito tributario residuo, quando sia in fase di estinzione mediante rateizzazione;

d) la situazione di crisi ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera a), del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14.”

 

La novella del 2024 modifica anche le circostanze del reato (art. 13-bis), i rapporti tra procedimento penale e processo tributario (art. 20), le sanzioni amministrative per violazioni ritenute penalmente rilevanti (art. 21) e introduce una norma sull’efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione (art. 21-bis) e una sull’applicazione ed esecuzione delle sanzioni penali ed amministrative (art. 21-ter).

 

In questa articolata riforma del diritto penale tributario, il Decreto 231 resta sullo sfondo, venendo a galla nella modifica dell’art. 19, rubricato Principio di specialità, dell’art. 21 circa le sanzioni amministrative tributarie e le sanzioni amministrative da reato, dell’art. 21-bis e 21-ter con riferimento alla sola sanzione corporativa al fine di evitare ipotesi di bis in idem. Prima di soffermarsi su tali novazioni, è opportuno soffermarsi brevemente sul punto di raccordo tra i reati tributario e la responsabilità da reato dell’ente ossia sull’illecito corporativo previsto dall’art. 25-quinquesdecies d.lgs. n. 231/2001.

 

 

3. L’illecito 231 dipendente dai reati previsti dal d.lgs. n. 74/2000

 

L’articolo 25-quinquesdecies del d.lgs. n. 231/2001 pone un illecito corporativo dipendente dalla commissione di alcuni dei reati previsti dal d.lgs. n. 74/2000. Rubricato Reati tributari, rende illecito 231 la commissione nell’interesse o nel vantaggio dell’ente dei reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, d.lgs. n. 74/2000), dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, d.lgs. n. 74/2000), emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8, d.lgs. n. 74/2000), occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10, d.lgs. n. 74/2000), sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11, d.lgs. n. 74/2000), dichiarazione infedele (art. 4, d.lgs. n. 74/2000), omessa dichiarazione (art. 5., d.lgs. n. 74/2000) e indebita compensazione (art. 10-quater, d.lgs. n. 74/2000). È da evidenziare che le ultime tre fattispecie devono essere poste in essere per evadere l’IVA nelle operazioni transfrontaliere e arrecare un danno tributario complessivo o superiore a dieci milioni di euro.

 

All’illecito di cui all’art. 25-quinquesdecies, il d.lgs. n. 231/2001 commina la sanzione pecuniaria (co. 1, 1-bis e 2) e la sanzione interdittiva del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e revoca di quelli eventualmente già concessi e del divieto di pubblicizzare beni o servizi (co. 3). Sanzioni amministrative che ricadono nello spettro della riforma del 2024, come si vedrà subito.

 

 

4. Gli effetti riflessi della riforma del 2024 sulla responsabilità da reato tributario dell’ente e l’intento diretto di evitare il bis in idem tra sanzioni amministrative tributarie e sanzioni amministrative corporative

 

Primariamente, deve notarsi che la novazione dei precetti dei delitti di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis, d.lgs. n. 74/2000) e di omesso versamento di IVA (art. 10-ter, d.lgs. n. 74/2000) non tange il Decreto 231 perché entrambe le fattispecie esulano dal catalogo dei reati-presupposto.

 

Diversamente, l’introduzione della causa di non punibilità per il reato di indebita compensazione (art. 10-quater, co. 2-bis) parrebbe avere degli effetti nel sistema 231, rientrando tra i reati da cui deriva la responsabilità da reato dell’ente. Se, infatti, le “condizioni di obiettiva incertezza” di cui al comma 2-bis è idonea ad escludere la punibilità del fatto per la persona fisica allora tenderebbe ad escluderla anche per la persona giuridica. Risulterebbe incongruente, infatti, che quelle stesse condizioni possano fondare un interesse o un vantaggio dell’ente. In altri termini, sarebbe incongruente che l’imputazione soggettiva dell’illecito dipendente da reato si fondi sull’obiettiva incertezza della spettanza del credito da compensare ovvero su un errore su legge extrapenale.

 

Altra conseguenza – per così dire indiretta – della riforma del 2024 sulla punibilità degli enti si rintraccia nella espressa previsione nel d.lgs. n. 74/2000 della non punibilità per particolare tenuità del reato tributario. L’art. 13, co. 3-ter rinvia all’art. 131-bis c.p. e detta i criteri con cui il giudice deve valutare il fatto (retro § 1). Pertanto, risulterebbero sussumibili nello spettro di questa causa di non punibilità quei reati-presupposto che prevedono la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni ossia i delitti di dichiarazione infedele (art. 4, d.lgs. n. 74/2000), omessa dichiarazione (art. 5, d.lgs. n. 74/2000) e indebita compensazione (art. 10-quater, d.lgs. n. 74/2000). A questo punto aggalla un’aporia di sistema, che coinvolge i rapporti tra il reato-presupposto e l’illecito amministrativo da questo dipendente.

 

La Corte di cassazione a più riprese (ex multis, Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 1420/2020 e n. 11518/2019) ha ribadito che la causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p. non si applica all’illecito amministrativo dipendente da un reato, lasciando dunque impregiudicata la responsabilità dell’ente per quei reati particolarmente tenui e, nel caso di specie, per un delitto tributario particolarmente tenue in ragione della “entità del debito tributario residuo, quando sia in fase di estinzione mediante rateizzazione” oppure della “situazione di crisi” ai sensi del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. n. 14/2019).

 

A questi effetti riflessi sul sistema 231 seguono degli effetti diretti della riforma del diritto penale tributario sulla responsabilità da reato degli enti.

 

In primo luogo, il d.lgs. n. 87/2024 inserisce all’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 74/2000, rubricato Principio di specialità, una previsione afferente alla responsabilità degli enti che rimanda all’art. 21, co. 2-bis, comma di nuovo conio. Per cui, l’articolo 19 attualmente in vigore prevede che:

“1. Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale.

2. Permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, che non siano persone fisiche concorrenti nel reato e resta ferma la responsabilità degli enti e società prevista dall’articolo 21, comma 2-bis”.

 

L’art. 21, d.lgs. n. 74/2000, è rubricato Sanzioni amministrative per le violazioni ritenute penalmente rilevanti e il comma 2-bis – anch’esso di nuovo conio – prevede che “La disciplina del comma 2 si applica anche se la sanzione amministrativa pecuniaria è riferita a un ente o società quando nei confronti di questi può essere disposta la sanzione amministrativa dipendente dal reato ai sensi dell’articolo 25-quinquiesdecies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”.

 

Interpretando sistematicamente gli articoli 19 e 21 del d.lgs. n. 74/2000 risulta confermata l’autonomia della responsabilità da reato dell’ente, permanendo la stessa a norma dell’art. 21, co. 2-bis e, di conseguenza, questa ultima disposizione regola il rapporto tra sanzione amministrativa tributaria e sanzione amministrativa corporativa. Infatti, l’articolo 21 prescrive che le sanzioni della prima specie sono eseguibili nei confronti dell’ente quando il procedimento sia stato definito con l’archiviazione o con una sentenza di assoluzione o di proscioglimento che esclude la rilevanza penale del fatto. Di converso, lo stesso articolo 21 prevede che le sanzioni amministrative tributarie non sono eseguibili verso l’agente corporativo quando lo stesso può incorrere in una sanzione amministrativa prevista dall’art. 25-quinquiesdecies del Decreto 231.

 

Al di là della formulazione del comma 2-bis dell’art. 21 d.lgs. n .74/2000, sembra emergere che l’intento del legislatore del 2024 sia stato quello di razionalizzare il carico sanzionatorio dell’ente, evitando una possibile ipotesi bis in idem tra sanzione tributaria e sanzione pecuniaria.

 

Il comma introdotto nel 2024 pare adombrare che la disciplina ivi prevista sia esperibile quando nei confronti dell’ente “può essere disposta” la sanzione corporativa ovvero quando vi sia l’astratta possibilità di una sanzione pecuniaria (e interdittiva) a suo carico, possibilità legata all’annotazione della notizia dell’illecito 231 ai sensi dell’art. 55 del Decreto 231. In breve, verso l’ente indagato non sono eseguibili le sanzioni tributarie, mentre lo sono quando il procedimento a suo carico è stato archiviato o l’ente che è stato prosciolto.

 

A provare questa conclusione, soccorre l’art. 21-bis d.lgs. n. 74/2000, che tarato sulla persona fisica, come nello spirito della riforma del 2024, lascia aperte alcune questioni per la persona giuridica. Tale norma, infatti, assegna efficacia di giudicato alle sentenze definitive di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso in merito ai fatti ivi accertati a seguito del dibattimento, lasciando intravvedere la possibilità di esecuzione della sanzione tributaria per l’assoluzione dovuta ad altre cause. Nel Decreto 231, invece, la formula assolutoria è unica e vi è un rimando al codice di procedura penale: l’art. 66 prevede che “Se l’illecito amministrativo contestato all’ente non sussiste, il giudice lo dichiara con sentenza, indicandone la causa nel dispositivo”, cause che – ex art. 34 d.lgs. n. 231/2001 – si ricavano dall’art. 530 c.p.p. Di conseguenza, anche per l’ente potrebbe valere lo stesso criterio valido per la persona fisica ossia che la sanzione tributaria può trovare esecuzione quando l’illecito amministrativo non sussiste per ragioni diverse dalla insussistenza del fatto e dalla mancata commissione da parte dei soggetti apicali.

 

Inoltre, a riprova di questa conclusione, si deve considerare che l’art. 21-ter d.lgs. n. 74/2000, anch’esso frutto della riforma del 2024 e rubricato Applicazione ed esecuzione delle sanzioni penali e amministrative, prevede che “Quando, per lo stesso fatto è stata applicata, a carico del soggetto, una sanzione penale ovvero una sanzione amministrativa o una sanzione amministrativa dipendente da reato, il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione delle sanzioni di propria competenza e al fine di ridurne la relativa misura, tiene conto di quelle già irrogate con provvedimento o con sentenza assunti in via definitiva”.

 

Tale ultima diposizione pare lasciare aperta la possibilità di applicare “per lo stesso fatto” la sanzione tributaria e la sanzione corporativa, assicurando che quella successivamente irrogata venga ridotta, senza, tuttavia, stabilirne i criteri. Con riferimento all’ente, si potrebbe supporre che il giudice possa impiegare quelli previsti dall’art. 12 del Decreto 231, che – come noto – formula i criteri di riduzione della sanzione pecuniaria.

 

 

5. Conclusioni. L’ente, il convitato di pietra nella riforma del diritto penale tributario

 

Nell’impianto della riforma del diritto penale tributario, la responsabilità da reato dell’ente gioca il ruolo del convitato di pietra. Tenuta ai margini dell’impianto complessivo della novazione del 2024, tende a condizionarne l’applicazione e ad evidenziare alcune aporie tra la responsabilità individuale e quella corporativa.

 

È emerso come le modifiche al d.lgs. n. 70/2000 si riverberano sul Decreto 231 e come le stesse sollevano nuove problematiche applicative, che il silenzio del legislatore ne affida la risoluzione alla giurisprudenza. Problematiche, invero, non del tutto estranee al dibattito sul sistema 231. Basti considerare il tema dell’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. all’ente e l’estensione delle cause di non punibilità per l’estinzione del debito tributario anche al soggetto corporativo. Se la giurisprudenza di legittimità è quasi unanime nell’escludere che il fatto addebitato all’ente possa essere considerato particolarmente tenue, la stessa dovrà cimentarsi con le modifiche apportate a questa causa di non punibilità dal d.lgs. n. 87/2024. Uno dei parametri che il giudice deve valutare è lo stato di crisi dell’impresa per cui risulterebbe in qualche modo illogico che l’apicale venga dichiarato non punibile ex art. 131-bis c.p. e l’ente – in una situazione di crisi ai sensi del Codice dell’impresa – si veda irrogare la sanzione corporativa.

 

La medesima illogicità si palesa nella causa di non punibilità introdotta nel delitto di indebita compensazione (art. 10-quater, co. 2-bis), che vale per l’apicale ed è dubbio se possa valere anche per l’ente. In ossequio al principio di legalità, la giurisprudenza tende a riconosce in favore del soggetto collettivo solo le cause di non punibilità previste dal Decreto 231. Tuttavia, nel caso di specie, permanendo nella medesima ermeneutica, si arriverebbe al paradosso che la sussistenza di una “condizioni di obiettiva incertezza in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito” varrebbe ad escludere la punibilità per l’apicale e non per l’ente.

 

In conclusione, una maggiore attenzione da parte del legislatore del 2024 ai profili di intersezione tra il d.lgs. n. 74/2000 e il Decreto 231 avrebbe garantito un migliore coordinamento tra plessi normativi che l’articolo 25-quinquesdecies d.lgs. n. 231/2001 intreccia fra loro.