La Suprema Corte sull’(in)applicabilità delle garanzie di cui all’art. 220 disp. att. c.p.p. alle internal investigations e sui criteri di individuazione del dies a quo per la proposizione di querela

di  Giuseppe  Natale,  dottorando di ricerca in Diritto penale

 

1. Introduzione

Con la sentenza n. 10934, depositata il 15 marzo del 2024, la seconda sezione della Suprema Corte ha affrontato due temi di centrale interesse in materia di internal investigations: l’applicabilità dell’art. 220 disp. att. c.p.p. e la corretta individuazione del dies a quo per la proposizione della querela avverso il reato conosciuto nell’esecuzione delle investigazioni.

 

Le investigazioni interne sono uno strumento duttile e multifunzionale nelle realtà d’impresa. Da un lato, infatti, consentono la verifica della corretta attuazione dei protocolli e delle policy interne, vagliando l’effettivo grado di compliance della struttura organizzativa e l’esistenza di eventuali lacune da colmare. Dall’altro lato, invece, consentono di raccogliere informazioni circa la possibile perpetrazione di reati nel contesto d’impresa, con riferimento ai quali l’ente potrebbe trovarsi, in caso di procedimento, nella posizione di indagato ai sensi del d.lgs. 231/2001 oppure di persona offesa.

 

Nel nostro ordinamento non vi è una specifica disciplina che regoli il fenomeno e ciò ha fatto sorgere diversi interrogativi (anche) in merito all’individuazione delle garanzie da applicare a tutela dei soggetti coinvolti. Le modalità di svolgimento delle investigazioni interne sono generalmente conformate alle buone prassi, a cui è affidato il compito di indentificare il possibile contenuto del progetto di indagine e i suoi relativi attori. In linea generale, dopo una fase di esordio finalizzata alla raccolta documentale, si procede a un confronto diretto con i soggetti esterni o interni all’organizzazione attraverso interviste finalizzate a discutere il risultato della precedente verifica documentale e a vagliarne la fondatezza.

 

Con riguardo ai soggetti deputati al loro svolgimento si suole distinguere tra indagini cd. aziendali e indagini cd. indipendenti. Le prime sono affidate esclusivamente al personale interno all’ente e dunque a soggetti che si trovano in rapporto di immediata vicinanza spazio-temporale rispetto ai fatti da accertare. Di regola, vengono coinvolte le funzioni di internal audit, supportate da quelle di compliance e dagli in house counsel. Nelle seconde, invece, lo svolgimento dell’investigation è affidato a consulenti esterni e indipendenti, dotati di specifiche competenze professionali, che intervengono a supporto degli organi di amministrazione o di controllo dell’ente. La scelta tra le due tipologie è rimessa alla discrezionalità dell’ente e dipende spesso dalle caratteristiche del fatto oggetto di accertamento.

 

Tra il variegato ventaglio di problematiche che sollevano le internal investigations, un ruolo di primo piano è certamente occupato dalle interviste ai dipendenti.

 

Nel silenzio del legislatore, infatti, è proprio il confronto con i dipendenti, specie se sospettati di aver commesso illeciti, a sollevare pregnanti esigenze di garanzie difensive contro possibili abusi da parte di coloro che conducono le investigations. Il compito di individuare, in via interpretativa, la disciplina applicabile è dunque rimesso alla dottrina e alla giurisprudenza, la quale sul punto è invero minimale e, come il presente caso dimostra, non sempre assume delle posizioni che paiono assicurare il rispetto delle maggiori garanzie.

 

La sentenza in esame si inserisce in questo contesto, negando, come meglio ci si appresta ad approfondire, l’applicabilità dell’art. 220 disp. att. c.p.p. e dunque la possibilità di estendere le garanzie (sulle modalità) di acquisizione probatoria del codice di rito alle dichiarazioni assunte in sede di investigazioni interne.

 

Sotto altro profilo, la sentenza risulta di particolare interesse in quanto affronta una questione pratica di rilevante incidenza. Nelle ipotesi di illeciti commessi a danno dell’ente, infatti, è spesso proprio la conoscenza o il sospetto del reato a compulsare le indagini: ci si domanda, allora, se il termine per la proposizione della querela debba decorrere dal momento genetico dell’investigazione oppure all’esito di tale attività, dopo che l’ente abbia svolto tutti gli approfondimenti necessari, anche in merito all’individuazione dell’effettivo responsabile.

 

 

2. La vicenda e i motivi di ricorso

La vicenda vede coinvolto un dipendente di una società per azioni, imputato di appropriazione indebita commessa ai danni della medesima, e che, a seguito dello svolgimento delle investigazioni interne, aveva reso dichiarazioni autoincriminanti circa il fatto a lui contestato.

Nello specifico, la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Tivoli, aveva dichiarato nei confronti dell’imputato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, confermando, però, le statuizioni civili pari a euro 166.103, 57.

La difesa presentava ricorso per cassazione, formulando tre motivi.

 

Con il primo motivo, il ricorrente riteneva che i giudici del merito avessero errato nell’applicazione dell’art. 124 c.p., travisando le prove testimoniali dalle quali emergeva che la persona offesa, ossia la società presso la quale lavorava come dipendente l’imputato, avesse avuto conoscenza del reato ben prima della data individuata dal giudice come dies a quoper la decorrenza del termine per la proposizione della querela.

Nello specifico, si sosteneva che l’ente fosse a conoscenza della commissione dell’illecito sin dal momento in cui aveva avviato le investigazioni interne, nominando all’uopo un soggetto deputato alla relativa conduzione per far luce sugli ammanchi che erano stati rilevati. Il ricorrente, dunque, argomentava che la notitia criminis fosse già disponibile nella rete aziendale e che le investigazioni fossero finalizzate esclusivamente all’individuazione dell’autore del reato. Sicché, non richiedendo l’art. 124 c.p. che sia effettivamente noto l’autore del reato, il dies a quo avrebbe dovuto correttamente coincidere con l’avvio delle investigations.

 

Con il secondo e il terzo motivo il ricorrente ritiene invece viziate le modalità di assunzione nonché di valutazione delle sue dichiarazioni.

Sotto il primo profilo, la difesa ritiene che le dichiarazioni assunte nell’esecuzione del procedimento disciplinare fossero state rese sotto indebita pressione e con modalità decettive, violando così l’art. 7 della L. 300/1970.

Ancora, il ricorrente sosteneva che i giudici avevano errato nel ritenere inapplicabile l’art. 220 disp. att. c.p.p., il quale estende l’applicazione delle norme codicistiche sull’acquisizione probatoria anche alle attività di ispezione o vigilanza svolte in ambito privatistico. Tale interpretazione, a parere della difesa, sarebbe corroborata dall’art. 6 della CEDU, in base al quale le garanzie procedurali devono trovare applicazione anche alle controversie di stampo privatistico e, in particolare, alle contestazioni disciplinari in ambito lavoristico.

Con riferimento al profilo della valutazione probatoria, si argomentava che la dichiarazione autoincriminante assunta nel corso delle investigations avesse natura di confessione stragiudiziale ex art. 2735 c.c. e che dunque sarebbe stata, secondo le regole generali che governano il processo penale, insufficiente essa sola a costituire il «perno dell’affermazione di responsabilità» in assenza di ulteriori riscontri estrinseci.

 

 

3. L’individuazione del dies a quo per la proposizione della querela

La Suprema Corte ritiene il ricorso inammissibile in tutti i motivi formulati dal ricorrente.

Con riguardo alla corretta individuazione del termine di proposizione della querela, la Corte premette di non poter entrare nel merito del problema giacché involge una questione di fatto, come tale preclusa in sede di legittimità. Nondimeno, viene chiarito che ai fini della decorrenza del termine occorre che la persona offesa abbia avuto conoscenza precisa, certa e diretta del fatto illecito, in modo da disporre di tutti gli elementi valutativi per una corretta determinazione.

Con la locuzione notizia del fatto che costituisce reato contenuta nell’art. 124 c.p. deve intendersi la conoscenza del reato sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello soggettivo, non essendo sufficiente un mero sospetto della commissione dell’illecito. Dunque, solo dal momento in cui si sia formata tale conoscenza, che comprende anche – ove possibile – l’individuazione dell’autore dell’illecito, la persona offesa sarebbe libera di effettuare la scelta di avviare un procedimento penale che, per i reati non procedibili d’ufficio, la legge rimette alla sua discrezionalità.

Sulla scorta di tale principio, viene ritenuto che nel caso in cui vengano condotte delle investigazioni interne il termine comincia a decorrere non dal momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del fatto materiale del reato né da quello in cui, sulla scorta di un mero sospetto, indirizzi le indagini verso un determinato soggetto, ma piuttosto dall’esito complessivo di tali indagini.

La Corte conclude ritenendo che i giudici del merito abbiano, dunque, correttamente individuato il dies a quo facendolo coincidere con l’ultimo segmento degli accertamenti (contestazione), in quanto diretto a ricevere la versione della persona offesa per valutarla prima di procedere all’eventuale querela.

 

 

4. L’(in)applicabilità dell’art. 220 c.p.p. alle internal investigation

Anche con riferimento alle modalità di valutazione della dichiarazione, la Corte ritiene il motivo non ammissibile in quanto concernente, anch’esso, un profilo di merito non sindacabile.

Al riguardo, la Corte ha però riconosciuto come i giudici del merito abbiano correttamente valorizzato ulteriori elementi a latere della dichiarazione autoincriminante, consistenti nelle altre risultanze probatorie delle attività di investigazione interna. In questo modo la S.C. riconosce, seppur implicitamente, che gli esiti delle investigations possono correttamente costituire quegli elementi estrinseci con cui corroborare le cd. prove deboli del processo penale.

Volgendo lo sguardo al profilo dell’acquisizione della dichiarazione, la Corte ritiene corretta la soluzione adottata dai giudici di prime cure circa l’inapplicabilità dell’art. 220 disp. att. c.p.p.

Si argomenta che la disposizione in esame non solo richiede una previsione legislativa o regolamentare dei poteri di indagine, ma anche (e soprattutto) il carattere pubblicistico del rapporto tra dichiarante ed esercente la funzione o perlomeno la natura non esclusivamente privatistica della funzione stessa.

In altri termini, l’articolo in questione trova applicazione solo se gli accertamenti costituiscono oggetto di un’indagine condotta da un’autorità pubblica, ma non anche, invece, laddove gli stessi riguardino solamente le scelte inerenti alla eventuale instaurazione di un procedimento penale e/o alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Nel caso di specie, il rapporto tra l’imputato e la parte civile si esauriva in una dimensione meramente privatistica e la finalità delle investigazioni era quella di accertare le circostanze specifiche di natura contabile connesse agli ammanchi rilevati.

 

 

5. Alcune considerazioni conclusive

Con la sentenza in esame la Suprema Corte adotta un approccio restrittivo nell’estensione delle garanzie di acquisizione probatoria previste dal codice di rito, ritenendo l’alveo di applicazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p. circoscritto ai soli rapporti di natura pubblicistica.

La S.C. nega la possibilità di estendere le garanzie procedimentali che presidiano le modalità di assunzione della dichiarazione, in assenza di una puntuale previsione legislativa, che si ritiene non possa essere invero individuata nell’art. 220 disp. att., quantomeno per i rapporti di natura esclusivamente privatistica. Viene così implicitamente rigettata la tesi del ricorrente, secondo la quale una lettura convenzionalmente conforme (art. 6 CEDU) dell’art. 220 disp. att. c.p.p. avrebbe imposto la sua applicabilità anche alle controversie in ambito privatistico.

 

Preme evidenziarsi che in dottrina, sempre valorizzando l’art. 6 CEDU, è stata prospettata un’ulteriore impostazione interpretativa, che permetterebbe l’estensione quantomeno del principio nemo tenetur se detegere, al di là della portata attribuibile all’art. 220 disp. att. c.p.p.

Secondo tale impostazione, il lavoratore dovrebbe essere sempre avvertito in via preventiva della sua facoltà di astenersi dal deporre su circostanze che implichino un proprio coinvolgimento nei fatti oggetti di accertamento, e non potrebbe, quindi, essere obbligato a rispondere alle domande che possano mettere a rischio l’integrità del privilegio contro l’auto­in­cri­min­azione. Vieppiù, nell’ipotesi in cui, prima dell’interruzione, siano emersi fatti dai quali possa discendere una sua propria responsabilità, l’intervista andrebbe interrotta e quanto già emerso a suo carico sarebbe da ritenere inutilizzabile come prova processuale.

Tale lettura sarebbe corroborata dall’art. 391-bis, comma 9, c.p.p, che disciplina il colloquio investigativo svolto dal difensore allo scopo di ottenere informazioni utili alla difesa. La norma impone al difensore di interrompere l’assunzione di informazioni dalla persona informata dei fatti qualora essa renda dichiarazioni dalle quali emergano indizi di reità a suo carico, prescrivendo, inoltre, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni precedentemente acquisite. Si osserva che non vi sono ragioni per limitare l’applicazione di questa regola sulla scorta esclusivamente della veste giuridica (difensiva o meno) delle investigazioni. Ragionando diversamente non solo si svilirebbe la posizione del dichiarante, che sarebbe deteriore esclusivamente a causa del soggetto che conduce le indagini, ma si agevolerebbero altresì eventuali elusioni delle garanzie difensive da parte del datore.

Si rileva, infine, che, durante lo svolgimento delle investigazioni difensive, il dipendente non gode di un diritto all’assistenza difensiva. In questi termini, dunque, le garanzie del dipendente (privato) si riducono esclusivamente alla regola del nemo tenetur se detegere. Un’interpretazione che ne neghi l’applicazione svuoterebbe, così, di ogni guarentigia la posizione del lavoratore.

Rispetto al punto, nella sentenza in commento, non si evince un’esplicita posizione della Corte. Risultano, però, ravvisabili talune indicazioni nella parte dedicata alla valutazione della dichiarazione autoincriminate da parte dei giudici di merito. La S.C, nel rinviare rapidamente agli atti del merito, ritiene che i giudici di prime cure abbiano illustrato correttamente le ragioni per cui è possibile ritenere attendibili tali dichiarazioni, ritenendole, perciò, utilizzabili giudizialmente.

Al di là, dunque, dell’eventuale interruzione dell’intervista – di cui dalla sentenza di legittimità non emerge specifica conferma – la Corte non sembrerebbe accogliere la suddetta impostazione dottrinale, secondo la quale, si ribadisce, le dichiarazioni autoincriminanti non possono costituire prova della responsabilità all’interno del processo.

 

 

Sotto il profilo dell’individuazione del dies a quo, invece, la S.C. estende il consolidato orientamento in materia di decorrenza del termine anche alle ipotesi di internal investigatitons, adattandolo alle specificità di contesto. L’attivazione di investigazioni interne, seppur compulsata dal sospetto o della conoscenza della commissione di un illecito, non esaurisce il concetto di notizia del fatto che costituisce reato, essendo necessario attendere l’esito delle stesse e la relativa contestazione dell’illecito nei confronti di uno specifico dipendente (conoscenza soggettiva dell’illecito).