La Cassazione torna a pronunciarsi sulla prescrizione nel d.lgs. n. 231/2001: una conferma bis di legittimità
di Federica Zazzaro, Dottoranda di ricerca in Diritto penale
Con la sentenza n. 25764/2023 la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ritorna sul tema del regime di prescrizione dell’illecito amministrativo dell’ente a seguito della realizzazione di uno dei reati presupposto (su questo tema ci si è soffermati nel post “Riforma della prescrizione e Decreto 231: una prospettiva nel silenzio della legge” pubblicato sul sito), e conferma nuovamente la legittimità della disciplina di cui all’art. 22 d.lgs. n. 231/2001. Secondo il Supremo Collegio, la sua difformità rispetto al regime prescrittivo ordinario troverebbe giustificazione nella impossibilità di ricondurre integralmente il sistema di responsabilità ex delicto di cui al d.lgs. n. 231/2001 nell’ambito dell’illecito penale e delle garanzie penalistche previste dal codice di rito.
In linea generale, la disciplina della prescrizione di cui al d.lgs. n. 231/2001, all’art. 22 stabilisce che le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato. Inoltre, al secondo comma prevede che il decorso della prescrizione si interrompe con la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e con la contestazione dell’illecito amministrativo, ai sensi dell’art. 59, d.lgs. n. 231/2001. Quest’ultima causa interruttiva interrompe il corso della prescrizione fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio.
La disciplina del decreto 231, in attuazione del criterio delega di cui alla lettera r) dell’art. 11 della legge delega n. 300/2000, si discosta del tutto dalle regole previste agli artt. 157 ss. del codice penale, e replica, in buona sostanza, le previsioni dell’art. 28 della legge n. 689/1981 “Modifiche al sistema penale” (c.d. legge di depenalizzazione) prevedendo un regime prescrittivo che richiama in parte le disposizioni civilistiche: sia con riferimento alla durata temporale di cinque anni, sia con riferimento al regime degli effetti interruttivi degli atti sulla prescrizione. Difatti, la normativa ricalca, seppur non in forma espressa, il modello previsto dall’art. 2945 co. 2 del codice civile, secondo cui «se l’interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell’articolo 2943, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio».
Dunque, alla luce di una manifesta difformità della disciplina della prescrizione per gli enti rispetto al regime ordinario del codice di rito, la giurisprudenza di legittimità si è soffermata sulla questione in primis con la sentenza Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015 – dep. 2016, Bonomelli, Rv. 267047 in cui con un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa, ha ritenuto che la suddetta disciplina sia costituzionalmente legittima e, senza alcun dubbio, ragionevole nell’ottica di una visione d’insieme del sistema 231.
Nonostante ciò, in dottrina non sono mancati orientamenti contrari alla pronuncia di legittimità e vi è chi ha continuato a sollevare alcune perplessità nei confronti della disciplina di cui al d.lgs. n. 231/2001, soprattutto con riferimento ad una presunta violazione degli artt. 3, 24, 41 e 111 Cost. ad opera dell’art. 22 del decreto.
Alla luce di queste premesse, in questa sede ripercorreremo la sentenza n. 25764/2023 con la quale la Corte di Cassazione ribadisce il suo indirizzo giurisprudenziale rinviando ai principi di diritto espressi nella precedente pronuncia Bonomelli e confermando nuovamente una piena legittimità costituzionale della disciplina della prescrizione nel sistema 231.
1. Le motivazioni della società ricorrente nel caso in esame
La vicenda si colloca nell’ambito di un procedimento penale a carico di una società che era stata condannata, in primo e in secondo grado, per gli illeciti amministrativi connessi ai reati ascritti al suo legale rappresentante ad una sanzione pecuniaria di 50.000 euro, oltre che alla confisca di 66.666 euro.
Avverso la sentenza confermativa della Corte di appello di Milano, pronunciatasi a seguito di annullamento con rinvio della sentenza di appello, la società presenta ricorso eccependo tra i motivi la presunta irragionevolezza e illegittimità costituzionale della disciplina della prescrizione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, di cui all’art. 22 del d.lgs. n. 231/2001, ritenuta «totalmente distonica» rispetto al regime della prescrizione penale di cui agli artt. 157 e ss. c.p. e in contrasto, pertanto, con plurimi principi costituzionali, tra cui gli artt. 3, 24, 41 e 111 Cost.
In particolare, l’art. 3 Cost. è invocato in quanto si delineerebbe una irragionevole disparità di trattamento dell’ente rispetto alla persona fisica imputata del reato presupposto, atteso che la responsabilità dell’ente, seppur riconducibile a un tertium genus rispetto al regime amministrativo e penale, deve essere comunque considerata come avente natura penale alla luce del concetto di “matière pénale” di cui alla Convenzione EDU e, pertanto, l’ente deve essere destinatario delle medesime garanzie spettanti al soggetto cui viene contestato l’ illecito penale.
Quanto all’art. 24 Cost., il ricorrente denuncia una violazione del principio derivante dal fatto che il carattere di imprescrittibilità dell’illecito amministrativo affievolirebbe il diritto di difesa dell’ente man mano che decorre il tempo dalla commissione del fatto criminoso.
D’altro canto, la disciplina della prescrizione di cui al d.lgs. n. 231/2001 contrasterebbe anche con il diritto di iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost., perché preclude all’ente di continuare a svolgere la sua attività d’impresa per un significativo lasso di tempo, con notevoli ripercussioni economiche e reputazionali.
Infine, secondo quanto afferma la ricorrente, la disciplina contrasterebbe anche con il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost., in ragione dell’irragionevole durata del processo derivante da un regime di sostanziale imprescrittibilità dell’illecito amministrativo da reato.
2. La pronuncia della Sesta sezione della Corte di Cassazione: un giudizio di legittimità bis
Sulla scorta di quanto aveva già affermato la sentenza Bonomelli, la Sesta sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 25764/2023 riconferma la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 d.lgs. n. 231/2001, per asserito contrasto con gli artt. 3, 24, 41 e 111 Cost., in relazione alla presunta irragionevolezza della disciplina della prescrizione prevista per gli illeciti commessi dall’ente-imputato rispetto a quella prevista per gli imputati-persone fisiche. Al riguardo, il Supremo Collegio fornisce una serie di considerazioni.
Anzitutto, in relazione alla natura della responsabilità e al presunto contrasto con l’art. 3 Cost. , la Corte sulla scia della sentenza SS.UU., n. 38343/2014, TyssenKrupp, ribadisce la sua qualificazione di tertium genus sottolineando, altresì, che la circostanza che questo illecito venga accertato nell’ambito di un processo penale non basta di per sè a riconoscergli le medesime garanzie e la medesima natura dell’illecito penale. Pertanto, «se i due illeciti hanno natura differente, allora può giustificarsi un regime derogatorio e differenziato con riferimento alla prescrizione».
Quanto poi alla violazione dell’ art. 111 Cost., il Supremo Collegio rinvia alle considerazioni svolte nella sentenza Bonomelli, secondo cui deve escludersi che la disciplina di cui all’art. 22 sia confliggente con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), il quale «non deve essere inteso come semplice speditezza in funzione di un’efficienza tout court, ma piuttosto come razionale contemperamento dell’efficienza con le garanzie, la cui concreta attuazione è rimessa alle opzioni del legislatore».
Alla luce di ciò, la Suprema Corte rammenta che la disciplina della prescrizione 231 nasce da precise scelte politico-legislative: la previsione di una durata obiettivamente breve della prescrizione e di un termine unico, che prescinde cioè dall’entità della sanzione e dalla gravità dell’illecito, nasce dalla volontà legislativa di garantire una maggiore certezza giuridica nell’opera di accertamento dell’illecito amministrativo in capo all’ente.
D’altro canto, anche la previsione del regime degli effetti interruttivi, che replica la disciplina civilistica, è frutto di una precisa scelta legislativa. Come ricordato precedentemente, l’art. 22 al comma secondo stabilisce che “interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59” ed altresì che una volta contestato l’illecito amministrativo, “la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”.
In questo modo, il legislatore ha realizzato un bilanciamento «tra le esigenze di durata ragionevole del processo e le esigenze di garanzia, corrispondenti, nella specie, al valore della completezza dell’accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all’illecito amministrativo dell’ente. L’effetto di un tale bilanciamento risiede nella tendenziale riduzione del rischio di prescrizione una volta che, esercitata l’azione penale, si instauri il giudizio, con il contrappeso rappresentato dalla ridotta durata del termine di prescrizione, fissato per tutti gli illeciti in cinque anni, termine sensibilmente più breve rispetto a quanto previsto dal codice penale.» (vedi par. 4.1 della sentenza).
D’altro canto, a riprova di un perfetto equilibrio nella disciplina prescrittiva del sistema 231, la Corte ricorda che il legislatore ha cercato di controbilanciare questo regime introducendo una specifica disposizione – l’art. 60 – in base alla quale non può procedersi alla contestazione dell’illecito amministrativo nel caso in cui il reato presupposto sia già estinto per prescrizione. Ciò comporta che una volta verificatasi la prescrizione del reato presupposto senza che sia stato contestato l’illecito amministrativo ai sensi dell’art. 59 d.lgs. 231/2001, viene meno la potestà sanzionatoria a danno dell’ente.
Manifestamente infondata, altresì, è la questione di incostituzionalità anche in riferimento alla dedotta violazione dell’art. 41 Cost.
Sul punto, la Corte rileva che la sottoposizione degli enti che svolgono attività economica al d.lgs. n. 231/2001 rappresenta proprio la concretizzazione del principio di cui all’art. 41 Cost., perché, invece di porsi in contrasto con il precetto costituzionale, la disciplina 231 è volta proprio ad impedire che l’iniziativa economica privata rappresenti l’occasione per agevolare la commissione di reati.
Alla luce di questi aspetti, la Corte di Cassazione con la sentenza in commento dichiara la infondatezza del ricorso e conferma nuovamente la legittimità costituzionale nonché la ragionevolezza della disciplina della prescrizione dell’illecito da reato dell’ente, la quale si fonda su precise scelte politico legislative che legittimano a pieno la sua difformità rispetto al regime ordinario previsto dal codice di rito.
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