Le sanzioni internazionali afferenti al mercato dell’arte: nuove procedure di due diligence e aggiornamento degli standard di compliance
di Mario Iannuzziello, Dottore di Ricerca in Diritto penale
1. Introduzione
Stati Uniti e Unione europea hanno progressivamente ampliato il catalogo delle sanzioni internazionali emanate a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: dacché in un primo tempo le limitazioni e i divieti commerciali riguardavano beni strategici (come materie prime, armamenti e prodotti ad alta tecnologia) in un secondo tempo sono andati a sanzionare anche gli scambi afferenti i luxury goods, tra cui rientrano anche le opere d’arte e gli oggetti di antichità.
Da un canto, il Department of Commerce, Bureau of Industry and Security, degli Stati Uniti ha aggiornanto gli Export Administration Regulations (EAR), includendo nell’Embargoes and Other Special Control anche i luxury goods, tra cui compaiono – come meglio si vedrà successivamente – anche i works of art.
Dall’altro, poi, il Regolamento UE 2022/428 del 15 marzo 2022 – meglio noto come il ‘quarto pacchetto di sanzioni’ – ha esteso il divieto di importazione e di esportazione anche agli “oggetti d’arte, da collezione o di antichità”.
Tali nuove previsioni devono indurre gli operatori economici nel mercato dell’arte ad adottare nuove procedure di due diligence e, nel caso questi siano persone giuridiche, anche ad aggiornare le proprie regole di compliance, secondo il modello dei sanctions compliance programs.
Rinviando a quanto già apparso su questo sito circa la codificazione dei reati contro il patrimonio culturale e le conseguenze nel sistema 231, occorre soffermarsi sulle caratteristiche delle sanzioni internazionali e sui profili che vi assumono gli oggetti d’arte e successivamente analizzarne gli effetti sulla due diligence e sulla compliance d’impresa per poi concludere osservando quasi un’eterogenesi dei fini di quest’ultima.
2. Le sanzioni internazionali, il listing e i beni di lusso
Le sanzioni economiche e commerciali internazionali sono delle misure di diritto pubblico emanate da Stati – quali gli Stati Uniti – o da soggetti sovranazionali – quale l’Unione europea – al fine di indurre uno Stato che viola il diritto internazionale e/o i diritti umani oppure mette in pericolo la sicurezza globale a rientrare nell’ambito della legalità internazionale. Tali sanzioni si rivolgono sia agli Stati sia a singoli individui e imprese; per questi ultimi rivestono un ruolo preminente – tra le altre – quelle riguardanti la limitazione di alcuni diritti e del loro esercizio, come le facoltà di godimento e di disposizione connesse al diritto di proprietà, o il divieto di esercitare alcune libertà, come quelle economiche (cfr., CCCHub, 13 ottobre 2022).
Questo genere di sanzioni può dunque essere di due tipi: finanziario e commerciale.
Le sanzioni finanziarie pongono un vincolo di natura pubblicistica a risorse e mezzi economico-finanziari appartenenti o nella disponibilità di taluni soggetti, persone fisiche o giuridiche, c.d. listati. Le sanzioni commerciali, invece, si sostanziano in un divieto di intrattenere rapporti commerciali sempre con soggetti c.d. listati e hanno ad oggetto taluni beni sia strategici sia di altra natura.
Emerge, quindi, che le sanzioni internazionali hanno un destinatario specifico, individuato tramite la procedura del listing dalla medesima Autorità che impone le sanzioni. Tale procedura è volta ad identificare quelle persone fisiche o giuridiche che hanno un rapporto qualificato con lo Stato che ha violato il diritto internazionale. Infatti, tra i criteri con cui l’Unione europea seleziona il soggetto da listare compaiono anche le Reasons for listing cioè “The purpose of the reasons is to state, as concretely as possible, why the Council considers, in the exercise of its discretion, that the person, group or entity concerned falls under the designation criteria defined by the relevant legal act, taking into consideration the objectives of the measures”.
Sempre attraverso la procedura del listing vengono individuati anche i beni sanzionati, tra cui – accanto a materie prime, componentistica meccanica e prodotti ad alta tecnologia – compaiono anche i luxury goods. Stati Uniti e Unione europea hanno adottato una definizione comune per identificare cosa è da intendersi per beni di lusso.
Infatti, il Department of Commerce ha stabilito che “‘luxury good’ refers to any item that is identified in new supplement no. 5 to part 746 of the EAR” ossia “Works of art (including paintings, original sculptures and statuary), antiques (more than 100 years old), and collectible items, including rare coins and stamps”, che vengono poi specificati ulteriormente in ragione delle caratteristiche proprie dei singoli oggetti d’arte. Il Bureau of Industry and Security specifica che tali sono, fra gli altri, “paintings drawing and pastels, of an age not exceeding 100 years; mosaic, of an age not exceeding 100 years; original sculptures and statuary, in any material, of an age exceeding/not exceeding 100 years”.
Parallelamente, il Consiglio dell’Unione europea ha posto il divieto di “vendere, fornire, trasferire o esportare direttamente o indirettamente, i beni di lusso elencati nell’allegato XVIII a qualsiasi persona fisica o giuridica, entità od organismo in Russia, o per uno in Russia”. Al n. 20) di detto allegato compaiono “oggetti d’arte, da collezione o di antichità”.
Ambedue le istituzioni, poi, pongono un limite-soglia alla vigenza del divieto pari al valore del bene stesso, fissato in USD 300,00 e in € 300,00: da ciò, quindi, deriva che è consentita la vendita e l’acquisto di un’opera d’arte il cui valore si attesti al di sotto di tale soglia.
3. La due diligence alla prova delle sanzioni internazionali nel mercato dell’arte
Data, dunque, la vigenza delle sanzioni internazionali anche nel mercato dell’arte, gli operatori economici in questo settore dovrebbero adottare nuove procedure di due diligence e aggiornare le regole di compliance per evitare che – anche indirettamente – tali sanzioni possano essere eluse.
Preliminarmente, tuttavia, occorre notare come la procedura del listing possa agevolare tali attività: infatti, è l’istituzione stessa che individua sia i soggetti per cui vale il divieto sia gli oggetti su cui cade il divieto. Questa circostanza si rivela centrale nell’assetto delle procedure di due diligence, almeno sotto il profilo soggettivo della transazione.
L’operatore economico – sia esso intermediario, venditore o acquirente del bene artistico – tenuto al rispetto delle sanzioni internazionali, cioè quello residente o con sede negli Stati Uniti o nell’Unione europea o negli altri Stati che hanno emanato sanzioni (nel caso di quelle contro la Russia, anche Regno Unito e Svizzera), può avvalersi dei database dell’OFAC (Office of Foreign Assets Control), cioè la Sanctions List Search, e dell’Unione europea, ossia la EU Sanctions Map, per verificare che il proprio interlocutore o il bene da porre in commercio non sia listato.
A questo adempimento, poi, se dovesse dare esito negativo, dovrebbero seguire le procedure della Customer Due Diligence (CDD) e della Enhanced Due Diligence (EDD) – come raccomandato dall’Unione europea – volte ad evitare l’elusione delle sanzioni internazionali.
La CDD, infatti, fa parte dei controlli antiriciclaggio (AML) e prevede la raccolta e l’analisi delle informazioni sul venditore/acquirente, la valutazione del suo risk level, l’espletamento di controlli di background (cioè, fra gli altri, sulle linee di credito e sul casellario giudiziario del cliente), e il monitoraggio delle attività consuete dell’interlocutore nonché la conservazione dei dati risultanti da questa procedura. La EDD, invece, è una procedura di controllo del cliente più penetrante e si spiega verso le Politically exposed persons (PEPs) e verso quelle che compaiono nelle grey lists ossia verso i soggetti ad alto rischio.
Tali procedure – nel segmento di mercato qui in analisi – acquistano un rilievo peculiare e consustanziale alle verifiche richieste dalla vigenza delle sanzioni internazionali in quanto il soggetto listato potrebbe eludere le sanzioni attraverso un intermediario oppure una società con sede in un Paese non sanzionato e con la proprietà schermate.
Sotto il profilo oggettivo, invece, le procedure di due diligence appaiono più complesse sia perché le sanzioni individuano soltanto il genus (oggetto d’arte), senza specificarne la species (quelle imposte dell’Unione europea non fanno riferimento alle tipologie e alle caratteristiche di beni, a differenza di quelle statunitensi) sia perché il valore-soglia per l’efficacia del divieto (USD 300,00 e € 300,00) viene fissato – in concreto – dalle parti della transazione grazie all’ausilio di un esperto. In altre parole, il profilo oggettivo dei luxury goods di cui è vietata la transazione ripropone nell’ambito delle sanzioni internazionali le classiche problematiche – con i distinguo del caso, derivanti dalla procedura del listing – della due diligence nel mercato dell’arte.
Infatti, per l’osservanza del divieto gioca un ruolo determinante l’esperto d’arte che deve datare e valutare un’opera e a volte attribuirla all’autore, identificarla – anche ricostruendone la storia espositiva o i passaggi di proprietà – e, quindi, stabilirne la possibilità di metterla in commercio.
Con riferimento al bene artistico, quindi, gli operatori del mercato dell’arte devono far riferimento agli standard di due diligence che già animano detto settore, quali la Provenance and Due diligence Guide dell’UNESCO, lo Spectrum-related resources del Collections Trust, le Due Diligence Guidelines dell’International Association of Dealers in Ancient Art (IADAA), l’Art Transaction Due Diligence Toolkit della Responsible Art Market Initiative (RAM) oltre che la consultazione dei diversi database su cui sono censiti i beni artistici, quale la Banca Dati dei Beni Culturali Illecitamente Sottratti elaborata dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale.
4. L’adeguamento delle regole di compliance alle sanzioni internazionali nel mercato dell’arte
Le sanzioni internazionali, essendo dei limiti e/o dei divieti all’esercizio delle libertà economiche, inducono ad adeguare le regole di compliance delle imprese che operano in un settore merceologico sanzionato o che hanno il bene oggetto del proprio core business sanzionato, aprendo quasi un nuovo orizzonte alla compliance d’impresa, che prende il nome di sanctions compliance program (SCP) ed è volto ad evitare che le sanzioni internazionali siano eluse o frodate.
Per agevolare la formulazione di queste strategie di compliance, l’Office of Foreign Assets Control (OFAC) del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha pubblicato un documento – A Framework for OFAC Compliance Commitments – che individua cinque componenti essenziali dei sanctions compliance programs:
- Management commitment;
- Risk assessment;
- Internal controls;
- Testing and auditing;
- Training.
Il medesimo documento, poi, specifica in cosa consistono tali componenti e aggiunge che nella risk-based sanctions compliance vanno tenute in debito conto anche la capacità patrimoniale dell’ente, la struttura societaria, i prodotti e i servizi che commercializza, la propria catena di fornitura, il target di clienti a cui si riferisce e i partner commerciali nonché la collocazione geografica, cioè la sede dell’impresa.
Con specifico riferimento ai luxury goods come beni sanzionati emerge come i sanctions compliance programs debbano adattarsi alle specificità dell’oggetto d’arte e, quindi, come il modello di organizzazione e gestione debba interiorizzare e formalizzare le procedure di due diligence testé analizzate, anche prevedendo uno specifico sistema di Whistleblowing o, quantomeno per quelle imprese che hanno sede nell’Unione europea, una regola interna che rimandi all’uso dell’EU Sanctions Whistleblower Tool. Tale strumento, infatti, è un sistema anonimo di segnalazione volto a denunciare la violazione delle sanzioni internazionali poste dall’Unione europea.
Sempre l’oggetto del divieto, poi, induce ad adattare i modelli di compliance in ragione proprio delle sue caratteristiche: infatti, la procedura di risk assessment che riguarda un bene artistico deve aver cura di valutare quelle peculiarità che fanno di un oggetto un oggetto d’arte quali l’origine, la storia espositiva, le variazioni di prezzo, i passaggi di proprietà e così via.
La pervasività dei controlli nel mercato dell’arte si spiega in ragione del ruolo che i beni artistici hanno in diverse dinamiche criminologiche, quali il riciclaggio di denaro o di beni di provenienza illecita oppure il finanziamento del terrorismo internazionale. In tema, il rapporto FATF (Financial Action Task Force) del febbraio 2023, Money Laundering and Terrorist Financing in the Art and Antiquities Market e anche il Report on the state of effectiveness and compliance with the FATF standard dell’aprile 2022 così come l’EU Action Plan against trafficking in cultural goods del dicembre 2022 suggeriscono regole di compliance e ne raccomandano l’implementazione al fine di evitare che tramite questi beni possano essere commessi altri reati oppure – e ciò ne giustifica il loro inserimento nelle liste dei prodotti sanzionati – eluse o frodate le sanzioni internazionali.
5. Conclusioni: verso un’eterogenesi dei fini della compliance?
Affiora, infine, una riflessione sul ruolo che progressivamente va ad assumere la compliance.
È emerso, infatti, che le sanzioni internazionali pongono dei limiti e dei divieti tanto al soggetto listato quanto alla persona fisica che risiede o all’ente che ha la sede legale in uno Stato che ha emanato le sanzioni. Di conseguenza, gli obblighi che promanano da questi atti di diritto pubblico internazionale sono bidirezionali e se per la prima categoria di soggetti valgono come strumento di pressione politica contro lo Stato sanzionato, per la seconda – soprattutto quanto si rivolgono agli enti – pare che assumano una funzione di empowerment delle sanzioni stesse.
Ciò pare suggerito dal ruolo svolto dai sanctions compliance programs, che sembra attestarsi su due fronti.
Il primo è afferente alla classica compliance d’impresa cioè a garantire che l’operato dell’ente sia conforme all’ordinamento e, quindi, a prevenire e, nel caso, a gestire il rischio-reato ingenerato dalla vigenza delle sanzioni internazionali.
Il secondo, invece, pare essere politico nel senso che i sanctions compliance programs mirano – in via indiretta – a potenziare l’efficacia delle sanzioni internazionali, risolvendosi, quindi, in uno strumento di politica internazionale.
Questa conclusione pare suffragata dalle conseguenze giuridiche per il cittadino di uno Stato che ha imposto le sanzioni o per l’ente che vi ha sede e che non osserva le sanzioni internazionali. Negli Stati Uniti, ad esempio, ex § 1701 e ss. dell’International Emergency Economic Power Act, 50 U.S.C., la violazione delle sanzioni dell’OFAC può comportare per le imprese una sanzione pecuniaria fino a un milione di dollari e per le persone fisiche la reclusione fino a vent’anni. Nell’Unione europea, invece, le conseguenze sono diversificate a seconda della cittadinanza/sede del soggetto che viola le sanzioni unionali, anche se è in discussione una proposta di Direttiva volta ad armonizzarle (cfr., COM(2022) 684 final), che interessa anche le persone giuridiche. In Italia, ad esempio, la violazione delle sanzioni UE integra il delitto di cui all’art. 20 d.lgs. n. 221/2017 (rubricato Sanzioni relative ai prodotti listati per effetto di misure restrittive unionali), che, tuttavia, non costituisce reato-presupposto nel sistema 231.
La ‘controspinta’ esercitata dall’inosservanza delle sanzioni internazionali – soprattutto in ambito statunitense – pare indirizzare la funzione di compliance verso scopi diversi da quelli originari, ingenerando quasi un’eterogenesi dei fini. Nata per garantire la legalità dell’operato dell’impresa nel mercato, si evolve fino ad assumere – soprattutto con i sanctions compliance programs – i contorni di uno strumento di empowerment e di enforcement del diritto internazionale – a cui afferiscono le sanzioni di cui si è trattato – con cui conferire maggiore effettività alle scelte di politica internazionale.