Modello organizzativo adottato ma non reso operativo dalla società: la Cassazione ritorna sul tema delle condotte riparatorie previste dal d.lgs. 231/01

di  Federica  Zazzaro, Dottoranda di ricerca in Diritto penale

 

 

 

 

1. Introduzione

La Suprema Corte, con la sentenza n. 38025 del 7 ottobre 2022, torna ad occuparsi di modelli organizzativi adottati post delictum e di condotte riparatorie poste in essere dalla società ai fini della riduzione della sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 12, comma 2, lett. b), d.lgs. 231/2001.

 

Il caso sottoposto all’esame dei giudici di legittimità ha ad oggetto la condanna di una società per i reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico organizzato di rifiuti speciali e di gestione, ricezione e trasporto di ingenti quantitativi di rifiuti anche pericolosi al fine di conseguirne un ingiusto profitto (in sintesi, reati di criminalità organizzata finalizzati alla commissione di reati ambientali), ex artt. 24 ter, comma 2 e 25 undecies, d.lgs. n. 231/2001.

 

A seguito di annullamento parziale della precedente sentenza di appello con rinvio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria, la società presentava ricorso avverso la nuova sentenza di secondo grado lamentando una palese violazione di legge e un vizio di motivazione nella parte in cui i giudici non avevano riconosciuto l’attenuante della riduzione della sanzione pecuniaria, ex art. 12, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 231/2001, sebbene la società avesse adottato, nei tempi previsti, un idoneo modello di organizzazione, con nomina di un organismo di vigilanza ed avesse introdotto un codice etico e un manuale integrato su qualità, ambiente e sicurezza sul lavoro.

 

I giudici di legittimità, considerando inammissibili i motivi di doglianza, respingono il ricorso ribadendo che la semplice nomina dell’organismo di vigilanza nonché le ulteriori iniziative adottate dalla società risultano insufficienti a soddisfare le condizioni per l’applicazione della misura sanzionatoria attenuata.

 

Per converso, sarebbe stato necessario che tale modello di organizzazione, gestione e controllo fosse reso “operativo”, ossia caratterizzato da specifiche procedure tese ad evitare la commissione di reati della specie verificatasi, con una concreta individuazione dei rischi insiti nell’attività produttiva ed un efficiente sistema di flussi informativi che avrebbero permesso all’organismo di vigilanza di operare correttamente.

 

La sentenza in commento, oltre ad avere il merito di consolidare un aspetto già precedentemente affrontato nella giurisprudenza di legittimità, consistente nel riconoscere una “effettività concreta” al modello organizzativo, al tempo stesso si segnala per le sue ricadute applicative.

 

 

2. Il sistema sanzionatorio e la preminenza degli obiettivi riparatori nel decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231

 

La soluzione adottata dalla Corte di Cassazione si inserisce nel più ampio contesto delle condotte riparatorie realizzabili dall’ente coinvolto nell’illecito penale e fornisce l’occasione per guardare più da vicino tale tematica.

 

Come noto il decreto 231 concede ampio spazio alla disciplina riparatoria, rendendo possibili attività di ravvedimento post factum ad opera dell’ente non solo in una fase cognitiva, ma anche successivamente, in fase di esecuzione della pena: a seconda del momento in cui vengono compiute esse permetteranno all’ente di conseguire diversi vantaggi.

 

Ripercorrendo le disposizioni normative, l’art. 17 fa discendere la mancata applicazione delle sanzioni interdittive nel caso di attuazione delle condotte riparatorie prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, al contempo l’art. 12 prevede in tal caso la riduzione della sanzione pecuniaria; gli artt. 49 e 50 disciplinano la sospensione e la successiva revoca delle misure cautelari; infine, l’art. 78 consente, in fase esecutiva della sanzione interdittiva, la sua conversione in sanzione pecuniaria all’esito del positivo accertamento circa l’attuazione delle condotte riparatorie.

 

All’interno di un sistema sanzionatorio «essenzialmente binario» (vedi Relazione allo schema definitivo del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231), incentrato sulla “coppia dialettica” della sanzione pecuniaria, da un lato, e sanzione interdittiva, dall’altro, il legislatore ha predisposto un sistema premiale in grado di soddisfare obiettivi di reintegrazione dei beni giuridici offesi e di ripristino della legalità. Da ciò consegue la centralità attribuita agli strumenti di ravvedimento post factum e alle forme collaborative di promozione della legalità d’impresa, che si collocano all’interno del sistema processuale ed abbracciano l’intero procedimento contra societatem.

 

In un’ottica di special-prevenzione, il legislatore offre all’ente, che si è reso colpevole di non aver adeguatamente previsto i rischi-reato, la possibilità di porvi rimedio mediante un’attività riparatoria consistente nella neutralizzazione degli effetti negativi della propria condotta e nell’opera di (ri)organizzazione interna dell’impresa.

 

A ben vedere, la dottrina prevalente sembra aver accolto l’idea secondo cui l’irrogazione di una pena che gravi in particolar modo sul patrimonio e sulla vita dell’ente non garantisca risultati positivi, quanto piuttosto «rappresenterebbe il fallimento della riforma, che vuole diffondere a ogni livello una cultura della prevenzione dei reati dentro le imprese». A tal riguardo, il sistema punitivo 231 è riconosciuto quale forma di «apertura più travolgente» nell’ottica di un’evoluzione politico-criminale che guarda sempre di più alla pena punitiva come ad un modello «residuale e non fondazionale». Si fa così riferimento alla c.d. “pena agìta” per indicare una sanzione che rimane essenzialmente negativa, ma che al contempo implica un comportamento attivo del soggetto nella sua esecuzione (è questo, notoriamente, il pensiero di Massimo Donini).

 

L’ente sarà incline ad agire in modo da beneficiare delle ipotesi premiali di non punibilità, e quanto maggiore sarà la sua azione riparatoria nei confronti delle vittime, a seguito della commissione dell’illecito, tanto più riceverà un giovamento in termini sia patrimoniali che non.

 

Pertanto, particolare importanza assumono le condotte realizzabili nella fase cognitiva, nello specifico prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, previste e disciplinate agli artt. 12 e 17 d.lgs. n. 231/2001.

 

 

3. L’attenuazione delle sanzioni pecuniarie ai sensi dell’art. 12, d.lgs. n. 231/2001

 

Le fattispecie attenuanti previste dall’art. 12, commi 2 e 3, d.lgs. n. 231/2001 incidono sulla determinazione della sanzione pecuniaria.

 

Per esigenze di completezza espositiva, un primo cenno va alle ipotesi di riduzione della sanzione pecuniaria previste dal primo comma del medesimo articolo: la pena è attenuata della metà nei casi in cui l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e, cumulativamente, non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo (lettera a); la medesima riduzione opera, altresì, nei casi in cui il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità (lettera b).

 

Tali requisiti se da un lato operano un collegamento indiretto con i criteri di imputazione oggettiva disciplinati dall’art. 5 ai fini dell’attribuzione della responsabilità all’ente, dall’altro, attraverso il rinvio al concetto di particolare tenuità, effettuano un richiamo alla formulazione di cui all’art. 62 n. 4 c.p.

 

Volgendo lo sguardo al secondo comma dell’art. 12, il legislatore attribuisce rilevanza alla condotta attiva dell’ente connotata da specifiche finalità riparatorie e connessa in alcuni casi all’adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo.

 

La prima parte della disposizione prevede – con una tecnica che è stata definita «più elastica» rispetto a quella del primo comma (così Giancarlo De Vero) – una riduzione da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso (lettera a).

 

Secondo quanto chiarito dalla stessa Relazione, la disposizione sanzionatoria postula due requisiti: il primo, di carattere temporale – consistente nella realizzazione dell’attività in una fase antecedente all’apertura del giudizio di primo grado – che mira a garantire il dispiegarsi degli effetti dell’attività di resipiscenza in un lasso di tempo ragionevolmente breve rispetto alla commissione dell’offesa.

 

Il secondo requisito, invece, attiene al contenuto delle attività richieste: esse devono mirare non solo a risarcire il danno causato, ma anche ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato, o quantomeno sforzarsi di raggiungere tale obiettivo.

 

A tal proposito, si è osservato, il legislatore ha introdotto una circostanza attenuante “ampia e strutturata” che si differenzia dalla formula attenuante di cui all’art. 62, n. 6, c.p. poiché prevede condotte cumulative, anziché alternative, consistenti in una prima attività di risarcimento integrale del danno e in una successiva condotta di eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli del reato, che miri ad un ripristino dello status quo ante alla realizzazione del reato presupposto.

 

Inoltre, nel caso in cui concorrono tutte le condizioni previste dal secondo comma, vi sarà una più consistente diminuzione della sanzione, dalla metà ai due terzi, ai sensi del comma terzo (comma terzo).

 

Sul punto la Suprema Corte era già intervenuta (Cass. pen., Sez. II, 28 novembre 2013, n. 326) per chiarire le modalità operative di tale condotta risarcitoria: l’obbligo di risarcimento presupporrebbe che l’ente si attivi, in primis, per instaurare una forma di collaborazione e/o dialogo con i soggetti danneggiati e solo successivamente prosegua con un’effettiva riparazione.

In ciò alcuni hanno ravvisato “tracce” seppur embrionali di giustizia riparativa, visto che il sistema sembra favorire, seppur timidamente, un incontro tra le parti assente nel resto del sistema 231.

 

 

4. L’adozione del modello di organizzazione post delictum

 

L’altra forma di mitigazione della sanzione pecuniaria è disciplinata dalla lettera b) del secondo comma dell’art. 12, secondo cui vi è una riduzione della sanzione pecuniaria da un terzo alla metà «se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi».

 

È qui che l’intera logica ‘premiale’ del decreto legislativo trova la sua espressione più significativa, in quanto individua tra le condotte riparatorie l’adozione e aggiornamento tardivi dei modelli organizzativi, pietra angolare del sistema di prevenzione dei reati.

 

Si tratta di una condotta ascrivibile al genere delle condotte riparatorie, in quanto funzionale ad eliminare le cause che hanno determinato l’illecito, ma che ha anche una chiara finalità preventiva, atteso che l’adozione dei modelli organizzativi, ove efficace, è in grado di disinnescare e prevenire la commissione di ulteriori illeciti. In questo modo, si incentiva il soggetto collettivo ad un’azione di riorganizzazione interna in senso compliant dell’ente.

 

Tale disposizione è stata sottoposta ad alcune osservazioni, espresse sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza di merito, circa i profili quantitativi e qualitativi che caratterizzano tali modelli.

 

Per ciò che concerne i profili qualitativi, sembrano non esservi dubbi circa la somiglianza strutturale che accomuna i modelli ex post rispetto ai modelli adottati ex ante. Il rinvio è alla disciplina prevista negli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/2001 e ai criteri di “efficacia, specialità e adeguatezza” di cui deve dotarsi qualsiasi modello organizzativo.

 

In particolar modo, l’ente dovrà effettuare un’attenta indagine interna idonea a cogliere i rischi e i deficit strutturali emersi nell’attività organizzativa, in vista di un futuro miglioramento in ottica preventiva.

 

Si differenziano, al contrario, quanto ai profili quantitativi, poiché l’adozione di un modello ex post alla commissione del reato deve essere caratterizzato da un contenuto maggiormente incisivo e specifico, che prenda in considerazione l’avvenuta condotta illecita e che predisponga in tal senso regole ad hoc volte ad eliminare, o quantomeno attenuare, i concreti fattori di rischio causali dell’illecito penale.

 

La stessa Corte di Cassazione nella sentenza in commento ha sottolineato la necessità che la persona giuridica si impegni effettivamente nella realizzazione dell’attività riparatoria, non essendo sufficiente la mera adozione di un modello ‘idoneo’, ma dovendo agire attraverso una serie di procedure, quali l’individuazione delle cause del reato e delle sfere di responsabilità, la rimozione degli autori dell’illecito dai vertici aziendali o ancora la auto-limitazione di alcuni settori produttivi, tale per cui si può effettivamente constatare la avvenuta ‘operatività’ del modello di organizzazione, gestione e controllo.

 

Pertanto, nel caso qui analizzato, la mera nomina dell’organismo di vigilanza nonché l’introduzione di un codice etico e di un sistema sanzionatorio e disciplinare non comporterebbero un’automatica applicazione della fattispecie attenuante, poiché trattasi di attività propedeutiche, ma non sufficienti a prevenire i reati della stessa specie di quello che si è verificato.

 

Le osservazioni sin qui svolte ci portano a ritenere condivisibile la posizione della Corte di Cassazione, atteso il carattere peculiare del modello organizzativo post factum, il quale trova la sua ragion d’essere proprio nel dotare la società di una efficacia riparatoria e preventiva dell’eventuale reiterazione del reato. Se bastasse la mera adozione di un modello organizzativo senza una sua effettiva attuazione, si perderebbe la stessa ratio che è alla base dell’intero sistema premiale delle condotte riparatorie.

 

 

 

 

Per consultare la sentenza della Cassazione Penale, Sez. 4, 7 ottobre 2022, n. 38025, clicca qui.