L’ente non è ammesso alla prova: in attesa delle motivazioni delle Sezioni Unite, una rassegna delle precedenti pronunce di merito
di Marco Colacurci, Ricercatore in Diritto penale
1. L’informazione provvisoria delle Sezioni Unite della Cassazione
Ampio risalto ha avuto l’informazione provvisoria rilasciata dalla Suprema Corte di Cassazione con cui si è reso noto che le Sezioni Unite hanno ritenuto non applicabile l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova anche agli enti collettivi.
La Corte, nel ritenere che il procuratore generale è legittimato ad impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova, ha altresì statuito che «l’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d. lgs. n. 231 del 2001».
La soluzione negativa adottata dalla Suprema Corte si inserisce all’interno di un dibattito caratterizzato da una varietà di posizioni, espresse sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza di merito, in ordine all’opportunità di applicare l’istituto della messa alla prova anche agli enti collettivi, nonché alla possibilità di farlo già de lege lata.
L’opinione maggioritaria sembra propendere per una risposta positiva nel primo caso e negativa nel secondo: sebbene sia auspicabile un’estensione della sospensione del processo con messa alla prova agli enti, ciò dovrà attendere uno specifico intervento del legislatore.
Alcuni autori hanno segnalato come il richiamo generico compiuto dall’art. 34 d.lgs. n. 231/2001 alle norme dettate dal codice di procedura penale, applicabili ove compatibili, ricomprenderebbe anche gli artt. 464 bis c.p.p. e seguenti.
La gran parte, invece, ritiene che a un simile risultato osterebbe sia la disciplina di cui all’art. 8 d.lgs. n. 231/2001, in base al quale l’estinzione del reato presupposto per causa diversa dall’amnistia non estingue l’illecito amministrativo dell’ente, e la dimensione individualistica della prova trattamentale, calibrata su un destinatario umano e pertanto affidata all’UEPE.
Non sarebbe dunque possibile, per via interpretativa, colmare quel sostanziale disinteresse del legislatore per il settore della responsabilità da reato degli enti, già rinvenibile, peraltro, in altri recenti interventi animati da finalità deflattive (si veda, in particolare, ai settori tributario e ambientale, o alla causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto).
Anche la giurisprudenza di merito prevalente propende per la soluzione di segno negativo; tuttavia, vi sono almeno due pronunce in cui l’ente è stato ammesso alla prova.
Pertanto, in attesa di conoscere le motivazioni della decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che dovrebbero aver messo un punto fermo in materia, si ritiene utile ripercorrere le pronunce intervenute sinora sul punto, così da illustrare le questioni problematiche al centro del dibattito, non senza aver prima chiarito le ragioni politico-criminali alla base della diffusa idea di ritenere anche l’ente collettivo sottoponibile alla messa alla prova.
2. L’importanza della dimensione riparatoria nel d.lgs. n. 231/2001 e le affinità con la messa alla prova
L’attenzione della dottrina per la sospensione del giudizio con messa alla prova dell’ente discende dalle particolari caratteristiche dell’istituto, che sembrano renderlo particolarmente adatto al campo della responsabilità delle imprese.
Come noto, infatti, la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato tenta di contribuire alla deflazione processuale mediante una spiccata personalizzazione del rimprovero in un’ottica di special-prevenzione. Ciò risulta in maniera evidente dalla saldatura tra dimensione sostanzialistica e processualistica di un rito speciale basato sul consenso dell’imputato a porre rimedio alle conseguenze negative del reato e a sottoporsi a un trattamento rieducativo atto a contribuire alla sua risocializzazione. Trattamento determinato dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE) e soggetto a un’approvazione giudiziale preventiva, cui seguirà un secondo giudizio avente ad oggetto la buona riuscita o meno della “prova”.
Analogamente agli altri riti speciali, anche in questo caso l’imputato rinuncia in parte alle proprie garanzie processuali a fronte della sospensione del processo e, in caso di esito positivo della prova, dell’estinzione del reato. Anche in giurisprudenza, d’altro canto, si è espressamente segnalato come nella messa alla prova si assista a un ribaltamento «della tradizionale sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (Sez. Un., sent. 31 marzo 2016 n. 36272). L’applicazione di una (alternativa alla) pena precede l’accertamento della responsabilità, ma la mancata verifica della colpevolezza individuale è bilanciata dall’estrema personalizzazione del rimprovero, oltre che legittimata dal consenso dell’imputato.
A ben vedere, elementi analoghi si rinvengono nel d.lgs. n. 231/2001, in particolare se si guarda alla sua dimensione riparatoria. Il sistema di responsabilità da reato degli enti, si è osservato, tende costantemente alla compliance: il fallimento del compito di prevenzione dei reati affidato dal legislatore all’impresa, da declinare mediante l’adozione ante delictum di sistemi di compliance adeguati a prevenire i diversi rischi-reato, non fa venir meno la possibilità per l’ente di avvalersi di una serie di opportunità post delictum.
In fase procedimentale e processuale, questi è incentivato a porre rimedio a quanto realizzato, e godere di premi quali la mancata applicazione delle sanzioni interdittive e la riduzione di quelle pecuniarie. Le condizioni per accedere a siffatti benefici sono dettate agli artt. 12 e 17 d.lgs. n. 231/2001, che individuano il contenuto del comportamento riparatorio richiesto, finalizzandolo al perseguimento di obiettivi risarcitori, ripristinatori e riorganizzativi.
La dinamica processuale de societate risulta diretta, in via prioritaria, a ricomporre il conflitto generato dal reato (presupposto), svolgendo una funzione regolatoria più che di cognizione della responsabilità. L’accertamento della responsabilità dell’ente per il fatto commesso – calibrata a partire dalla valutazione del modello organizzativo in vigore al momento del fatto – rimane assorbita dal giudizio complessivo sulla condotta post factum tenuta volontariamente dall’ente, con la possibilità di ridurre significativamente la gravità delle sanzioni ad esso applicate.
Tanto nella sospensione del processo con messa alla prova quanto nell’ambito del d.lgs. n. 231/2001, dunque, la dinamica processuale sospinge il soggetto imputato verso l’opzione riparatoria. Nondimeno, nel caso dell’ente non vi è la possibilità di escludere in toto la responsabilità, nonché i potenziali effetti negativi di natura reputazionale discendenti dalla sottoposizione a giudizio. Applicare la sospensione del procedimento con messa alla prova anche all’ente produrrebbe effetti positivi, allora, su entrambi i versanti, in quanto configurerebbe una causa di estinzione dell’illecito amministrativo da reato e comporterebbe una sospensione del processo a carico dell’ente.
3. Le pronunce di merito contrarie all’estensione della messa alla prova agli enti de lege lata
Una volta chiarite le affinità teleologiche tra i due sistemi, è possibile passare in rassegna le pronunce intervenute sinora sulla questione, in particolare al fine di avere contezza degli argomenti contrari a un’interpretazione in senso estensivo della messa alla prova.
La decisione del Tribunale di Milano del 27 marzo 2017
Il diniego si fonda sulla natura ibrida e comunque sanzionatoria dell’istituto della messa alla prova: dopo averne evidenziato la dimensione tanto sostanziale quanto processuale – conformemente a quanto statuito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 36272/2016 – l’ordinanza ritiene che:
- il disposto dell’art. 34 d.lgs. n. 231/2001 non abbia carattere risolutivo, atteso che fa unicamente riferimento alle norme dettate dal codice di procedura penale;
- tale vuoto normativo non può neppure essere colmato ricorrendo a un’interpretazione analogica, a ciò ostando la natura punitiva dell’istituto e, di conseguenza, il principio di legalità delle pene.
Sulla natura di pena o meno della messa alla prova, come noto, il dibattito è acceso. Se la sent. n. 91/2018 della Corte Costituzionale si è pronunciata in senso negativo, successivamente la medesima Consulta si è allineata alle già richiamate Sezioni Unite della Corte di Cassazione mettendo in evidenza la “innegabile connotazione sanzionatoria” della messa alla prova.
La decisione del Tribunale di Bologna del 10 dicembre 2020
La seconda decisione di merito sul tema, pur allineandosi all’opinione che nega la natura di pena della messa alla prova, fonda la propria decisione di segno negativo su altri argomenti.
In particolare, si sostiene che la scelta del legislatore di non prevedere l’applicazione della messa alla prova all’ente sia frutto di una precisa volontà, in ossequio al principio ubi lex dixit voluit, noluit tacuit.
Le ragioni per tenere fuori dalla portata applicativa della messa alla prova le imprese risiederebbero nella particolare natura rieducativa dell’istituto, come testimoniato dalla circostanza per cui le condizioni applicative sono calibrate sulla persona fisica.
Allo stato della legislazione vigente, l’insostituibilità dell’affidamento in prova ai servizi sociali così come dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità impedirebbero di concepirne un adattamento all’ente.
La decisione del Tribunale di Spoleto del 21 aprile 2021
La terza decisione risulta particolarmente articolata.
Anzitutto, con riguardo all’argomento formalistico, si rileva che anche a voler considerare la messa alla prova una pena, la sua applicazione realizzerebbe un’interpretazione analogica con effetti in bonam partem, in quanto tale ammissibile.
A precludere l’accoglimento dell’istanza, però, sono anzitutto motivi di ordine pratico, discendenti dall’impossibilità di adattare in primo luogo i presupposti oggettivi dettati dall’art. 168 bis c.p. all’ente, in base al quale la messa alla prova può essere concessa per reati punibili con la sola sanzione pecuniaria, o anche laddove debba applicarsi una sanzione detentiva non superiore a quattro anni.
Ebbene, il giudicante ritiene che qualunque opzione ermeneutica si voglia percorrere – consentire in ogni caso la messa alla prova dell’ente giacché le sanzioni interdittive sono comunque meno severe di quelle detentive, limitarla ai soli casi in cui la persona fisica possa essere ammessa al probation o infine considerarla applicabile per quei soli illeciti amministrativi da reato punibili con sanzione pecuniaria o interdittiva non superiore a quattro anni, in virtù di un’equiparazione tra sanzioni detentive per l’individuo e interdittive per l’ente – rappresenterebbe il frutto di un’interpretazione creatrice e come tale inammissibile.
Non solo: anche a voler ritenere superabile un siffatto ostacolo, il trattamento in concreto applicabile all’ente risulterebbe modellato sulle condotte previste dall’art. 17 del Decreto 231, alla cui realizzazione conseguirebbe, però, l’estinzione dell’illecito amministrativo da reato e non più la conversione delle sanzioni interdittive in pecuniarie e la riduzione di queste ultime.
A parere del Tribunale, infatti, l’equivalente per l’ente dell’affidamento in prova ai servizi sociali dell’imputato, diretto come noto a sollecitarne un reingresso nella legalità, potrebbe essere rinvenuto nel processo di adozione e aggiornamento dei modelli organizzativi, e il lavoro di pubblica utilità potrebbe essere «spersonalizzato» e rimodulato in una prestazione patrimoniale in favore della collettività, secondo quanto già avviene mediante la messa a disposizione del profitto a fini di confisca.
In questo modo, però, si creerebbe una corsia preferenziale per gli enti messi alla prova, in spregio al principio di uguaglianza nei confronti di quelli che semplicemente riparano, pur realizzando le medesime condotte.
4. Le pronunce di merito favorevoli all’estensione della messa alla prova agli enti de lege lata
Come anticipato, in due casi l’ente è stato ammesso alla prova.
La decisione del Tribunale di Modena dell’11 dicembre 2019
In questo caso l’istanza di parte è accolta senza che siano fornite articolate motivazioni rispetto alla posizione dell’ente, la quale è al contrario sostanzialmente equiparata a quella individuale ai fini della verifica circa la sussistenza dei presupposti applicativi dell’istituto.
La lettura congiunta delle posizioni dell’impresa e dell’individuo risalta con ancor più nettezza se si osserva che l’istanza è corredata da un solo programma trattamentale elaborato dall’UEPE, valevole dunque per entrambi i soggetti.
Inoltre, non vi è un giudizio analitico sull’oggetto della prova trattamentale, ma questa è sic et simplicter ritenuta idonea e come tale atta a fondare l’ammissione dell’ente al rito speciale. Anche la sentenza che dichiara l’estinzione del reato e dell’illecito amministrativo si limita a prendere atto della relazione favorevole svolta dall’UEPE e della messa a disposizione del profitto del reato.
In seguito, il medesimo Tribunale di Modena si è nuovamente pronunciato sull’ammissibilità dell’ente alla messa alla prova, stavolta propendendo per la soluzione negativa.
Tuttavia, questa scelta è basata sulla mancata adozione, da parte dell’impresa, di un modello organizzativo prima che si verificasse il reato, una circostanza da cui il giudicante fa discendere l’impossibilità di effettuare una «prognosi negativa sulla “pericolosità organizzativa” dell’ente».
Il giudice, dunque, introduce un requisito ulteriore, inevitabilmente non previsto ex lege, da cui far dipendere l’ammissibilità della messa alla prova dell’ente: la mancata adozione, al momento del fatto, del modello organizzativo.
La decisione del Tribunale di Bari del 22 giugno 2022
La pronuncia in questione risulta piuttosto articolata: essa prende le mosse dalla constatazione della coerenza funzionale tra il “sistema 231” e la messa alla prova, atteso che il primo è orientato a «indurre l’ente ad adottare comportamenti riparatori dell’offesa» tali da «consentirgli di continuare ad operare sul mercato nel rispetto della legalità o, meglio, di rientrarvi con una nuova prospettiva di legalità».
Ciò chiarito, il giudicante si confronta con gli argomenti addotti dalla giurisprudenza contraria:
- si ritiene che l’estensione della messa alla prova agli enti non contrasti con il principio di legalità e i suoi corollari, al più risolvendosi in un’ammissibile analogia in bonam partem;
- non si condivide l’idea per cui il deficit di coordinamento tra i due sistemi normativi sia sintomatico della volontà legislativa di escludere gli enti dall’ambito applicativo dell’istituto della messa alla prova;
- si ritiene che non si introdurrebbero elementi di irrazionalità nel sistema in relazione a quanto previsto dall’art. 17 del Decreto 231, in quanto la messa alla prova avrebbe un oggetto ben più ampio, «contemplando pure l’affidamento al servizio sociale per un programma che può comprendere attività di volontariato di rilievo sociale nonché la prestazione di pubblica utilità»;
- infine, l’assenza di un modello organizzativo al momento del verificarsi del fatto non è considerata preclusiva dell’accesso alla messa alla prova, laddove l’ente vi abbia posto rimedio prima dell’apertura del dibattimento, come avvenuto nel caso di specie.
Nel merito, il giudice valuta positivamente l’adozione ancorché tardiva del modello e il risarcimento integrale del danno.
Il programma di messa alla prova è poi oggetto di apprezzamento, in quanto prevede l’impegno dell’ente a mantenere contatti frequenti con l’UEPE, cui andrà comunicata ogni modifica della sede legale, a svolgere lavori di pubblica utilità, consistenti nella manutenzione ordinaria di impianti elettrici e televisivi presenti nella sede di un’associazione, e a svolgere attività di volontariato, consistente nella donazione di denaro in favore della Protezione Civile.
5. In attesa delle Sezioni Unite, alcune considerazioni conclusive
La pur cursoria rassegna delle decisioni di merito intervenute sinora illustra come gli argomenti contrari all’ammissione dell’ente alla prova a legislazione invariata appaiano insuperabili, per cui deve prediligersi la strada dell’adeguamento legislativo.
Gli argomenti contrari a una sua estensione addotti dai giudici di merito appaiono significativi soprattutto nella misura in cui evidenziano la necessità di concepire un trattamento che sia calibrato sull’ente e non sulla persona fisica.
In questo senso, le pronunce che hanno accolto l’istanza di parte e ammesso l’ente alla prova paiono confermare questo dato, giacché rivelano il rischio di una sovrapposizione tra persona fisica e persona giuridica. Se ciò risulta particolarmente evidente nella richiamata pronuncia del Tribunale di Modena, anche quella più recente, del Tribunale di Bari, pare indiziare un simile pericolo, atteso che si trattava di una società unipersonale e che l’elemento di discrimine con il disposto di cui all’art. 17 d.lgs. n. 231/2001 è individuato proprio nella possibilità di svolgere lavori di pubblica utilità.
Con specifico riferimento a quest’ultimo punto, un’apposita disciplina legislativa potrebbe invece concepire un percorso riparatorio dell’ente in certa misura più ampio, o comunque in parte diversificato da quanto richiesto già dal d.lgs. n. 231/2001 per ottenere i benefici sanzionatori, così giustificando il premio maggiore dell’estinzione dell’illecito da reato.
In attesa di poter leggere le motivazioni, deve dunque salutarsi con favore quanto deciso dalle Sezioni Unite già alla luce della sola informazione provvisoria.